Antonio Bardellino era affiliato a Cosa Nostra, legato a Ta-no Badalamenti, sodale e amico di Tommaso Buscetta, con cui aveva diviso una villa in Sud America. Quando i Corleo-nesi spazzarono il potere di Badalamenti-Buscetta tentarono di eliminare anche Bardellino, ma senza successo. I siciliani, durante la prima fase di ascesa della Nuova Camorra Organizzata, tentarono di eliminare anche Raffaele Cutolo. Mandarono un killer, Mimmo Bruno, con un traghetto da Palermo, ma questi venne ucciso appena messo piede fuori dal porto. Cosa Nostra ha avuto nei confronti dei Casalesi sempre una sorta di rispetto e soggezione, ma quando, nel 2002, i Casalesi uccisero Raffaele Lubrano — boss di Pignataro Maggiore vicino Capua — uomo affiliato a Cosa Nostra, combinato direttamente da Totò Runa, in molti temevano lo scoppio di una faida. Ricordo che il giorno dopo l'agguato un giornalaio, vendendo il quotidiano locale, si rivolse al cliente biascicando tra i denti i suoi timori:
"Mo se vengono a combattere pure i siciliani perdiamo la pace per tre anni."
"Quali siciliani? I manosi?"
"Sì, i mafiosi."
"Quelli si devono inginocchiare davanti ai Casalesi e succhiare. Solo questo devono fare, zucare tutto e basta."
Una delle dichiarazioni che più mi avevano sconvolto sui mafiosi siciliani l'aveva rilasciata Cannine Schiavone, pentito del clan dei Casalesi, in un'intervista del 2005. Parlava di Cosa Nostra come di un'organizzazione schiava dei politici, incapace di ragionare in termini di affari, come invece facevano i camorristi casertani. Per Schiavone la mafia voleva porsi come anti-Stato, e questo non era un discorso da imprenditori. Non esiste il paradigma Stato-anti Stato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato:
Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c'era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Runa usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci.
Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il metodo per raggirare.
Carmine Schiavone, cugino del boss Sandokan, fu il primo a scoperchiare gli affari del clan dei Casalesi. Quando scelse di collaborare con la giustizia, sua figlia Giuseppina gli lanciò una terribile condanna, forse persino più letale di una condanna a morte. Scrisse infatti parole di fuoco ad alcuni giornali:
"È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra."
Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null'altro che imprenditori. Un clan formato da azienda-listi violenti, manager killer, da edili e proprietari terrieri. Ognuno con le proprie bande armate, consorziati tra loro con interessi in ogni ambito economico. La forza del cartello dei Casalesi è sempre stata quella di trattare grandi partite di droga senza avere necessità di alimentare un mercato interno. La grande piazza romana è il loro riferimento di spaccio, ma molta più rilevanza ha assunto il carattere di mediazione nella compravendita di grosse partite. Gli atti della Commissione Antimafia del 2006 segnalano che i Casalesi rifornivano di droga le famiglie palermitane. L'alleanza con i clan nigeriani e albanesi gli ha permesso di emanciparsi dalla gestione diretta dello spaccio e del narcotraffico. I patti con i clan nigeriani di Lagos e Benin City, le alleanze con le famiglie mafiose di Pristina e Tirana, gli accordi con i mafiosi ucraini di Leopo-li e Kiev avevano emancipato i clan Casalesi dalle attività criminali di primo livello. Allo stesso tempo i Casalesi ricevevano un trattamento privilegiato negli investimenti compiuti nei paesi dell'est e nell'acquisto di coca dai trafficanti internazionali con basi in Nigeria. I nuovi leader, le nuove guerre, tutto era avvenuto dopo l'esplosione del clan Bardellino, origine del potere imprenditoriale della camorra di queste terre. Antonio Bardellino, dopo aver raggiunto un dominio totale in ogni ambito economico legale e illegale, dal narcotraffico all'edilizia, si era stabilito a Santo Domingo con una nuova famiglia. Aveva dato ai figli sudamericani gli stessi nomi di quelli di San Cipriano, un modo semplice e comodo per non confondersi. I suoi uomini più fedeli avevano in mano le redini del clan sul territorio. Erano usciti indenni dalla guerra con Cutolo, avevano sviluppato aziende e autorevolezza, si erano espansi ovunque, in Italia settentrionale e all'estero. Mario Iovine, Vincenzo De Falco, Francesco Schiavone "San-dokan", Francesco Bidognetti "Cicciotto di Mezzanotte", Vincenzo Zagaria erano i capi della confederazione Casalese. All'inizio degli anni '8 °Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan erano responsabili militari, ma anche imprenditori con interessi in ogni ambito, avevano ormai maturato la possibilità di dirigere l'enorme multicefalo della confederazione. Trovavano però in Mario Iovine, un boss troppo legato a Bardelli-no, un capo restio a una scelta d'autonomia. Attuarono così una strategia sibillina, ma politicamente efficace. Usarono le spigolosità della diplomazia camorristica nell'unico modo che poteva permettere di realizzare i loro scopi: fare scoppiare una guerra interna al sodalizio.
Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e spingerlo a eliminare Mimi Iovine, fratello di Mario, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario era disposto a sacrificare suo fratello, pur di mantenere ben saldo il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimi mentre stava andando al lavoro nel suo mobilificio. Subito dopo l'agguato Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan fecero pressione su Mario Iovine perché eliminasse Bardellino, dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere l'uno contro l'altro. Iniziarono a organizzarsi. I delfini di Bardellino erano tutti d'accordo per eliminare il capo dei capi, l'uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprendito-riale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana. Gli raccontarono che aveva l'Interpol alle costole. In Brasile, nel 1988, lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l'impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio Iovine — non trovandosi più nei calzoni la pistola — prese una mazzuola e sfondò il cranio di Bardellino. Seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana, dove però non fu mai trovato, e così nacque la leggenda che Antonio Bardellino fosse in realtà ancora vivo a godersi le sue ricchezze in qualche isola sudamericana. Eseguita l'operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo, nipote di Bardellino e suo vero erede sul territorio, venne invitato a un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese. Racconta il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere a capotavola, in rappresentanza dello zio. Poi d'improvviso Sandokan lo aggredì e iniziò a strangolarlo, mentre suo cugino, suo omonimo conosciuto come "Cicciariello", e altri due affiliati Raffaele Diana e Giuseppe Caterino, gli tenevano gambe e braccia. Avrebbe potuto ammazzarlo con una pistolettata o una coltellata allo stomaco come facevano i vecchi boss. Era invece con le mani che doveva ucciderlo, come si ammazzano i vecchi sovrani scalzati dai nuovi. Da quando, nel 1345, Andrea d'Ungheria venne strangolato ad Aversa in una congiura organizzata da sua moglie Giovanna I e dai nobili napoletani comandati da Carlo di Durazzo che ambiva al trono di Napoli, nell'agro aversa-no lo strangolamento era divenuto il simbolo della successione al trono, dell'avvicendarsi violento dei sovrani. Sandokan doveva mostrare a tutti i boss che lui era l'erede, che lui per diritto di ferocia era il nuovo leader dei Casalesi.
Antonio Bardellino aveva creato un sistema complesso di dominio e tutte le cellule imprenditoriali che si erano generate nel suo seno non potevano restare ancora per lungo tempo compattate negli scompartimenti da lui diretti. Erano giunte a maturazione, dovevano esprimere tutto il loro potere, senza più vincoli di gerarchia. Sandokan Schiavone divenne così il leader. Aveva messo su un sistema efficientissimo legato tutto alla sua famiglia. Il fratello Walter coordinava le batterie di fuoco, il cugino Carmine gestiva l'aspetto economico e finanziario, il cugino Francesco fu eletto sindaco di Casal di Principe e l'altro cugino Nicola assessore alle Finanze. Passaggi importanti per riuscire ad affermarsi in paese, che nella fase d'ascesa significa molto. Il potere di Sandokan si affermò nei primi anni del suo dominio anche attraverso stretti legami politici. Per un conflitto con la vecchia Democrazia Cristiana, a Casal di Principe i clan appoggiarono nel 1992 il Partito Liberale Italiano che ebbe la più grande impennata della sua storia: da un risicato 1 per cento balzò, dopo il sostegno del clan, al 30 per cento. Ma tutti gli altri uomini di primo piano del clan erano ostili alla leadership assoluta di Sandokan. Soprattutto i De Falco, gruppo capace di avere dalla propria carabinieri e poliziotti, alleanze imprenditoriali e politiche. Nel 1990 ci furono diverse riunioni dei dirigenti Casalesi. A una fu invitato anche Vincenzo De Falco, soprannominato *"o fuggiasco". I boss avrebbero voluto eliminarlo. Lui non arrivò. Arrivarono invece i carabinieri che arrestarono i convitati. Nel 1991 Vincenzo De Falco venne ucciso, lo crivellarono di colpi nella sua macchina. La polizia lo trovò accasciato su se stesso con lo stereo a palla e una cassetta di Modugno che ancora girava. Dopo questa morte ci fu una spaccatura tra tutte le famiglie della confederazione dei Casalesi. Da un lato le famiglie vicine a Sandokan-Iovine: Zaga-ria, Reccia, Bidognetti, e Caterino; dall'altra le famiglie vicine ai De Falco: Quadrano, La Torre, Luise, Salzillo. I De Falco risposero alla morte del "fuggiasco" ammazzando Mario Iovi-ne a Cascais, in Portogallo nel 1991. Lo crivellarono di colpi mentre era in una cabina telefonica. Con la morte di Iovine fu terreno aperto per Sandokan Schiavone. Ci furono quattro anni di guerre, massacri, quattro anni di mattanze continue tra le famiglie vicine a Schiavone e quelle dei De Falco. Anni di stravolgimenti di alleanze, di clan che passavano da una parte all'altra dello schieramento, non ci fu una vera e propria soluzione, ma una spartizione di territori e poteri. Sandokan divenne l'emblema della vittoria del suo cartello sulle altre famiglie. Dopo, tutti i suoi nemici si riconvertirono in suoi alleati. Cemento e narcotraffico, racket, trasporti, rifiuti e monopolio nel commercio e nelle imposizioni di forniture. Questo era il territorio aziendale dei Casalesi di Sandokan. I consorzi del cemento divennero un'arma fondamentale per i clan Casalesi.
Ogni impresa edile deve rifornirsi di cemento dai consorzi, e così questo meccanismo diventava fondamentale per mettere in relazione i clan con tutti gli imprenditori edili esistenti sul territorio e con tutti gli affari possibili. Il prezzo del cemento dei consorzi gestiti dai clan, come dichiarato spesso da Carmine Schiavone, riusciva ad avere vantaggi esponenziali perché, oltre al cemento, le navi dei consorzi distribuivano armi ai paesi mediorientali con embargo. Questo secondo livello di commercio permetteva di abbattere i costi del livello legale. I clan Casalesi guadagnavano in ogni passaggio dell'economia dell'edilizia. Fornendo cemento, fornendo ditte in subappalto per la costruzione e ricevendo una tangente sui grossi affari. Tangente che risultava essere il punto di partenza, poiché senza versarla, le loro ditte economiche ed efficienti non avrebbero lavorato, e nessun'altra ditta avrebbe potuto farlo senza danno alcuno e a buon mercato. Il giro d'affari che la famiglia Schiavone gestisce è quantificabile in cinque miliardi di euro. L'intera potenza economica del cartello delle famiglie Casalesi tra beni immobili, masserie, azioni, liquidità, ditte edili, zuccherifici, cementifici, usura, traffico di droga e di armi, si aggira intorno ai trenta miliardi di euro. La camorra casalese è diventata un'impresa polivalente; la più affidabile della Campania, in grado di partecipare a tutti gli affari. La quantità di capitali accumulati illegalmente le consente di avere spesso un credito agevolato che permette alle sue imprese di sbaragliare la concorrenza con prezzi bassi o con intimidazioni. La nuova borghesia camorrista casalese ha trasformato il rapporto estorsivo in una sorta di servizio aggiuntivo, il racket in una partecipazione all'impresa di camorra. Pagare un mensile al clan può significare concedergli esclusivamente danaro per i suoi affari, ma al contempo può significare anche ricevere protezione economica con le banche, camion in orario, agenti commerciali rispettati. Il racket come un acquisto imposto di servizi. Questa nuova concezione del racket emerge da un'indagine del 2004 della Questura di Caserta, conclusasi con l'arresto di diciotto persone. Francesco Schiavone San-dokan, Michele Zagaria e il clan Moccia erano i più importanti soci di Cirio e Parmalat in Campania. In tutto il casertano, in parte consistente del napoletano, in tutto il basso Lazio, in parte delle Marche e dell'Abruzzo, in parte della Lucania, il latte distribuito dalla Cirio e poi dalla Parmalat aveva conquistato il 90 per cento del mercato. Un risultato ottenuto grazie all'alleanza stretta con la camorra casalese e alle tangenti che le aziende pagavano ai clan per mantenere una posizione di preminenza. Diversi i marchi coinvolti tutti riconducibili all'impero Eurolat, l'azienda passata nel 1999 dalla Cirio di Cragnotti alla Parmalat di Tanzi.
I magistrati avevano disposto il sequestro di tre concessionarie e diverse aziende per la distribuzione e la vendita del latte, tutte, secondo l'accusa, controllate dalla camorra casalese. Le aziende del latte erano intestate a prestanome che agivano per conto dei Casalesi. Prima Cirio, e poi Parmalat, per ottenere il ruolo di cliente speciale, avevano trattato direttamente con il cognato di Michele Zagaria, latitante da un decennio e reggente del clan dei Casalesi. Il trattamento di favore era conquistato innanzitutto attraverso politiche commerciali. I marchi della Cirio e della Parmalat concedevano ai distributori uno sconto speciale — dal 4 al 6,5 per cento, invece del consueto 3 per cento circa — oltre a vari premi di produzione, così anche i supermercati e i dettaglianti potevano strappare buoni sconti sui prezzi: i Casalesi costruivano in questo modo un consenso diffuso nei confronti del loro predominio commerciale. Dove poi non arrivavano il pacifico convincimento e l'interesse comune, entrava in azione la violenza: minacce, estorsioni, distruzione dei camion per il trasporto delle merci. Pestavano i camionisti, rapinavano i Tir delle aziende concorrenti, bruciavano i depositi. Un clima di paura diffusa, tanto che nelle zone controllate dai clan era impossibile non solo distribuire, ma anche trovare qualcuno che fosse disposto a vendere marchi diversi da quelli imposti dai Casalesi. A pagare, alla fine, erano i consumatori: perché in una situazione di monopolio e di mercato bloccato, i prezzi finali erano fuori da ogni controllo per mancanza di una vera concorrenza.