Quando Vincenzo Lubrano venne assolto organizzò un pellegrinaggio con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio, artefice, secondo lui, dell'assoluzione. Statue a grandezza naturale di Padre Pio, copie di terracotta e bronzo del Cristo che campeggia a braccia aperte sul Pào de Agucar di Rio, sono presenti in moltissime ville di boss della camorra. A Scampia nei laboratori di stoccaggio della droga spesso vengono tagliati trentatré panetti di hashish per volta, come gli anni di Cristo. Poi ci si ferma per trentatré minuti, si fa il segno della croce e si riprende il lavoro. Una sorta di omaggio a Cristo per propiziarsi guadagni e tranquillità. Lo stesso accade con le bustine di coca che spesso, prima della distribuzione ai pusher, il capozona bagna e benedice con l'acqua di Lourdes sperando che le partite non uccidano nessuno, anche perché della cattiva qualità della roba ne risponderebbe lui direttamente.

Il Sistema camorra è un potere che non coinvolge soltanto i corpi, né dispone soltanto della vita di tutti, ma pretende di artigliare anche le anime. Don Peppino volle iniziare a fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime.

Il documento tentò addirittura di entrare nel merito dei sacramenti. Tenere lontano ogni sorta di sovrapposizione tra la comunione, il ruolo del padrino, il matrimonio e le strategie camorristiche. Allontanare i patti, le alleanze dei clan dai simboli religiosi. Al solo pensiero di pronunciare una cosa del genere i preti del luogo sarebbero scappati in bagno dalla paura tenendosi lo stomaco in mano. Chi avrebbe cacciato dall'altare un boss pronto a battezzare il figlio di un affiliato? Chi avrebbe rifiutato di celebrare un matrimonio solo perché frutto dell'alleanza tra famiglie? Don Peppino era stato chiaro.

Non permettere che la funzione di "padrino" nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale.

Don Peppino sfidò il potere della camorra nel momento in cui Francesco Schiavone, Sandokan, era latitante, quando si nascondeva nel bunker sotto la sua villa in paese, mentre le famiglie Casalesi erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia "fatevi coraggio" alle madri in nero. In un'intervista dichiarò: "Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi". Prese anche posizione politica, chiarendo che la priorità sarebbe stata la lotta al potere politico come espressione di quello imprenditorial-criminale, che l'appoggio sarebbe andato ai progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, non ci sarebbe stata alcuna imparzialità da parte sua. "Il partito si confonde con il suo rappresentante, spesso i candidati favoriti dalla camorra non hanno né politica né partito, ma solo un ruolo da giocare o un posto da occupare." L'obiettivo non era vincere la camorra. Come lui stesso ricordava "vincitori e vinti sono sulla stessa barca". L'obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare, denunciare, fare l'elettrocardiogramma al cuore del potere economico come un modo per comprendere come spaccare il miocardio dell'egemonia dei clan.

Mai per un momento nella mia vita mi sono sentito devoto, eppure la parola di don Peppino aveva un'eco che riusciva ad andare oltre il tracciato religioso. Foggiava un metodo nuovo che andava a rifondare la parola religiosa e politica. Una fiducia nella possibilità di azzannare la realtà, senza lasciarla se non dilaniandola. Una parola capace di inseguire il percorso del danaro seguendone il tanfo.

Si crede che il danaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. E è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il danaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione. Simili odori si sanno riconoscere solo quando le narici si strofinano contro ciò che li emana. Don Peppino Diana aveva compreso che doveva tenere la faccia su quella terra, attaccarla sulle schiene, sugli sguardi, non allontanarsi per poter continuare a vedere e denunciare, e capire dove e come le ricchezze delle imprese si accumulano e come si innescano le mattanze e gli arresti, le faide e i silenzi. Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l'unico possibile per tentare di mutare il suo tempo: la parola. E questa parola, incapace al silenzio, fu la sua condanna a morte. I suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con gli abiti talari. Stava nella sala riunioni della chiesa, vicino allo studio. Non era immediatamente riconoscibile.

"Chi è don Peppino?"

"Sono io…"

L'ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l'avevano morso da vicino. Un'ogiva del proiettile gli era rimasta addosso, tra il giubbotto e il maglione. Una pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni. Don Peppino si stava preparando per celebrare la prima messa. Aveva trentasei anni.

Uno dei primi che accorse in chiesa e trovò il suo corpo ancora per terra fu Renato Natale, sindaco comunista di Casal di Principe. Era stato eletto da appena quattro mesi. Non fu un caso, quel corpo lo vollero far cadere anche sulla sua breve, brevissima gestione politica. Natale era stato il primo sindaco di Casal di Principe che aveva posto come priorità assoluta la lotta ai clan. Aveva per protesta anche abbandonato il consiglio comunale perché secondo lui si era ridotto a luogo di ratifica di decisioni prese altrove. Un giorno a Casale i carabinieri avevano fatto irruzione nella casa di un assessore, Gaetano Corvino, dove erano riuniti tutti i massimi dirigenti del clan dei Casalesi. Una riunione fatta mentre l'assessore era in municipio per una seduta della giunta comunale. Da un lato gli affari del paese, dall'altra gli affari attraverso il paese. Fare affari è l'unico motivo che ti fa alzare dal letto la mattina, ti tira per il pigiama e ti mette in piedi.

Ho sempre guardato Renato Natale da lontano, come si fa con quelle persone che diventano, senza volerlo, dei simboli di una qualche idea di impegno, resistenza, coraggio. Simboli quasi metafisici, irreali, archetipici. Con un imbarazzo da adolescente, ho sempre osservato il suo adoperarsi nel creare ambulatori per gli immigrati, denunciare negli anni bui delle faide, il potere delle famiglie della camorra casalese e i loro affari di cemento e monnezza. L'avevano avvicinato, minacciato di morte, gli avevano detto che se non avesse smesso la sua scelta si sarebbe ritorta contro i suoi familiari, ma lui continuava a denunciare, con ogni mezzo, persino attacchinando in giro per il paese manifesti che rivelavano cosa i clan stavano decidendo e imponendo. Più agiva con costanza e coraggio, più aumentava la sua protezione metafisica. Bisognerebbe conoscere la storia politica di queste terre per capire che peso specifico hanno i termini impegno e volontà.

Da quando è stata promulgata la legge che scioglie i comuni per infiltrazione mafiosa, sedici sono le amministrazioni comunali sciolte per camorra in provincia di Caserta. Cinque di esse sono state commissariate due volte. Carinola, Casal di Principe, Casapesenna, Castelvolturno, Cesa, Frignano, Grazzanise, Lusciano, Mondragone, Pignataro Maggiore, Recale, San Cipriano, Santa Maria la Fossa, Teverola, Villa di Briano, San Tammaro. I sindaci che si oppongono ai clan in questi paesi, quando riescono a farsi eleggere battendo voto di scambio e strategie economiche che trasversalmente avvinghiano ogni schieramento politico, si trovano a dover fare i conti con i limiti degli amministratori locali, pochi spiccioli e marginalità assoluta. Devono iniziare ad abbattere, smontando mattone per mattone. Con budget da paese devono fronteggiare multinazionali, con caserme di provincia arginare enormi batterie di fuoco. Come nel 1988 quando Antonio Cangiano, assessore di Casapesenna, si oppose alla penetrazione del clan in alcuni appalti. Lo minacciarono, lo pedinarono, gli spararono alla schiena, in piazza, davanti a tutti. Lui non aveva fatto camminare il clan dei Ca-salesi, i Casalesi non avrebbero più fatto camminare lui. Costrinsero Cangiano alla sedia a rotelle. I presunti responsabili dell'agguato sono stati assolti nel 2006.

Casal di Principe non è un paese della Sicilia aggredito dalla mafia, dove opporsi all'imprenditoria criminale è cosa dura ma al fianco della propria azione ci sono cortei di telecamere, giornalisti affermati e in via d'affermazione, e stuoli di dirigenti antimafia nazionali che in qualche modo riescono ad amplificare il proprio impegno. Qui tutto ciò che fai rimane nel perimetro degli spazi ristretti, nella condivisione dei pochi. È proprio in questa solitudine credo, che si foggia quello che potrebbe chiamarsi coraggio, una sorta di panoplia a cui non pensi, te la porti addosso senza rendertene conto. Vai avanti, fai quello che devi fare, il resto non vale nulla. Perché la minaccia non è sempre una pallottola tra gli occhi, o i quintali di merda di bufala che ti scaricano fuori alla porta di casa.

lì sfogliano lentamente. Una foglia al giorno, fin quando ti trovi nudo e solo a credere che stai combattendo con qualcosa che non esiste, che è un delirio del tuo cervello. Inizi a credere alle calunnie che ti indicano come un insoddisfatto che se la prende con chi è riuscito e per frustrazione li chiama camorristi. Giocano con te come con lo shangai. Tolgono tutte le bacchette di legno senza mai farti muovere, così alla fine rimani da solo e la solitudine ti trascina per i capelli. È uno stato d'animo che qui non ti puoi permettere. È un rischio, abbassi la guardia, non riesci più a comprendere i meccanismi, i simboli, le scelte. Rischi di non accorgerti più di niente. E allora devi dare fondo a tutte le tue risorse. Devi trovare qualcosa che carburi lo stomaco dell'anima per andare avanti. Cristo, Buddha, l'impegno civile, la morale, il marxismo, l'orgoglio, l'anarchismo, la lotta al crimine, la pulizia, la rabbia costante e perenne, il meridionalismo. Qualcosa. Non un gancio a cui appendersi. Piuttosto una radice sotto terra, inattaccabile. Nell'inutile battaglia in cui sei certo di ricoprire il ruolo di sconfitto, c'è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà grazie allo spreco del tuo impegno che ha il sapore della follia e dell'ossessione. Quella radice a fittone che si incunea nel terreno ho imparato a riconoscerla negli sguardi di chi ha deciso di fissare in volto certi poteri.

I sospetti sull'omicidio di don Peppino caddero subito sul gruppo di Giuseppe Quadrano, un affiliato che si era posto al fianco dei nemici di Sandokan. C'erano anche due testimoni: un fotografo che si trovava lì per fare gli auguri a don Peppino e il sagrestano della chiesa di San Nicola. Appena iniziò a circolare la notizia che la polizia aveva orientato i suoi sospetti su Quadrano, il boss Nunzio De Falco detto "'o lupo", che stava a Granada in Andalusia, dote nella spartizione territoriale dei poteri tra Casalesi, telefonò alla Questura di Caserta per chiedere un incontro con dei poliziotti e chiarire le questioni che riguardavano un affiliato al suo gruppo. Due funzionari della Questura di Caserta lo andarono a incontrare nel suo territorio. All'aeroporto la moglie del boss andò a prendere i due e si inoltrò con la macchina nelle bellissime campagne andaluse. Nunzio De Falco li aspettava, non nella sua villa a Santa Fé, ma in un ristorante dove con grande probabilità la maggior parte dei clienti erano figuranti pronti a intervenire in caso i poliziotti avessero commesso qualche imprudenza. Il boss subito chiarì che li aveva chiamati per fornire la sua versione sull'episodio, una sorta di interpretazione di un fatto storico e non una delazione o una denuncia. Una premessa chiara e necessaria per non infangare il nome e l'autorevolezza della famiglia. Non poteva mettersi a collaborare con la polizia. Il boss dichiarò senza perifrasi che a uccidere don Peppino Diana erano stati gli Schiavone, la famiglia rivale. Avevano ucciso il prete per far cadere sui De Falco la responsabilità dell'omicidio. "'O lupo" sostenne che non avrebbe mai potuto dare ordine d'uccidere don Peppino Diana, visto che suo fratello Mario gli era molto legato. Don Diana era infatti riuscito a non farlo diventare un dirigente del clan, a tenere con lui un dialogo capace di sottrarlo dal Sistema camorra. Era uno dei risultati più forti di don Peppino, ma il boss De Falco lo usò come suo alibi. A dare manforte alle tesi di De Falco intervennero altri due affiliati al clan: Mario Santoro e Francesco Piacenti. Anche Giuseppe Quadrano era in Spagna. Prima andò ospite nella villa di De Falco, poi si stabilì in un paese vicino a Valencia. Voleva mettere su un gruppo, aveva tentato di fare affari con dei carichi di droga che avrebbero dovuto fungere da acceleratore economico per edificare l'ennesimo clan im-prenditorial-criminale italiano nel sud della Spagna. Ma non ci riuscì. In fondo Quadrano era sempre stato un comprimario. Si consegnò alla polizia spagnola dichiarandosi disponibile a collaborare con la giustizia. Smentì la versione che Nunzio De Falco aveva raccontato ai poliziotti. Quadrano inserì l'omicidio all'interno della faida che stava avvenendo tra il suo gruppo e gli Schiavone. Quadrano era capozona di Ca-rinaro e i Casalesi di Sandokan gli avevano fatto fuori in poco tempo quattro affiliati, due zii e il marito della sorella. Quadrano raccontò che aveva deciso assieme a Mario Santoro di ammazzare Aldo Schiavone, un cugino di Sandokan, per vendicare l'affronto. Prima dell'operazione chiamarono De Falco in Spagna, nessuna operazione militare può essere compiuta senza il consenso di dirigenti, ma il boss da Grana-da bloccò rutto poiché Schiavone, dopo la morte del cugino, avrebbe ordinato il massacro di tutti i parenti di De Falco rimasti ancora in Campania. Il boss segnalò che avrebbe inviato Francesco Piacenti come messaggero e organizzatore di un suo ordine. Piacenti si fece Granada-Casal di Principe a bordo della sua Mercedes, la macchina negli anni '80 e '90 simbolo di questo territorio. D giornalista Enzo Biagi rimase sconvolto alla fine degli anni '90 quando ebbe per un suo articolo i dati di vendita delle Mercedes in Italia. Casal di Principe risultava tra le prime posizioni in Europa di vetture acquistate. Ma notò anche un altro primato: l'area urbana col più alto tasso di omicidi d'Europa era proprio Casal di Principe. Una relazione quella tra Mercedes e morti ammazzati che potrebbe rimanere una costante d'osservazione per i territori di camorra. Piacenti — secondo la prima rivelazione di Quadrano — comunicò che bisognava uccidere don Giuseppe Diana. Nessuno sapeva il motivo della decisione ma tutti erano sicuri che "il Lupo sapeva quello che stava facendo". Piacenti dichiarò — secondo il pentito — che avrebbe lui stesso commesso l'omicidio, a patto che con lui fosse andato anche Santoro o qualcun altro del clan. Mario Santoro invece titubava, chiamò De Falco dicendo che era contrario all'omicidio, ma alla fine accettò. Per non perdere il ruolo di mediatore nel narcotraffico con la Spagna che gli aveva concesso "'o lupo", non poteva sottrarsi a un ordine così importante. Ma l'omicidio di un prete, e per di più senza un motivo chiaro, non riusciva a essere accettato come un compito analogo ad altri. Nel Sistema camorra l'omicidio risulta necessario, è come un versamento in banca, come l'acquisto di una concessionaria, come interrompere un'amicizia. Non è un gesto che si differenzia dal proprio quotidiano: è parte dell'alba e del tramonto di ogni famiglia, di ogni boss, di ogni affiliato. Ma uccidere un prete, esterno alle dinamiche di potere, faceva galleggiare la coscienza. Secondo la dichiarazione di Quadrano, Francesco Piacenti si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi e quindi non poteva partecipare all'agguato. Mario Santoro invece accettò, ma con la compagnia di Giuseppe Della Medaglia, affiliato al clan Ranucci di Sant'Antimo, e già compagno di altre operazioni. Secondo il pentito si organizzarono per il giorno dopo, alle sei del mattino. Ma la notte fu tormentosa per l'intero commando. Non prendevano sonno, litigavano con le mogli, si agitavano. Faceva paura più quel prete che le bocche di fuoco dei clan rivali.