Il grande accordo tra le aziende nazionali del latte e la camorra era venuto fuori nell'autunno del 2000, quando un affiliato dei Casalesi, Cuono Lettiero, aveva cominciato a collaborare con i magistrati e a raccontare i rapporti commerciali stretti dai clan. La certezza di avere una vendita costante era il modo più diretto e automatico per avere garanzie con le banche, era il sogno di ogni grande impresa. In una situazione del genere Cirio e Parmalat risultavano ufficialmente "parti offese" cioè vittime delle estorsioni, ma gli investigatori si sono convinti che il clima degli affari era relativamente disteso e le due parti, le imprese nazionali e i camorristi locali agivano con reciproca soddisfazione.
Mai Cirio e Parmalat avevano denunciato di subire in Campania le imposizioni dei clan, seppure nel 1998 un funzionario della Cirio era stato vittima di un'aggressione nella sua abitazione nel casertano, dov'era stato selvaggiamente picchiato con un bastone sotto gli occhi della moglie e della figlia di nove anni perché non aveva obbedito a ordini dei clan. Nessuna ribellione, nessuna denuncia: la sicurezza del monopolio era meglio dell'incertezza del mercato. I soldi distribuiti per mantenere il monopolio e occupare il mercato campano dovevano essere giustificati nei bilanci delle aziende: nessun problema, nel Paese della finanza creativa e della depenalizzazione del falso in bilancio. False fatturazioni, false sponsorizzazioni, falsi premi di fine anno sui volumi di latte venduto risolvevano ogni problema contabile. Dal 1997 risultano finanziate, a questo proposito, manifestazioni inesistenti: la Sagra della mozzarella, Musica in piazza, persino la festa di San Tammaro, patrono di Villa Literno. La Cirio finanziava, come attestato di stima per il lavoro svolto, anche una società sportiva gestita di fatto dal clan Moccia, la Polisportiva Afragolese, oltre a una fitta rete di club sportivi, musicali, ricreativi: la "società civile" dei Casalesi nel territorio.
Il potere del clan negli ultimi anni è cresciuto enormemente riuscendo ad arrivare nell'est Europa: Polonia, Romania, Ungheria. Proprio in Polonia, nel marzo 2004, era stato arrestato Francesco Schiavone, Cicciariello, il cugino di San-dokan, il boss baffuto e tracagnotto, una delle personalità principali del sodalizio camorristico. Era ricercato per dieci omicidi, tre sequestri di persona, nove tentativi di omicidio e numerose violazioni delle leggi in materia di armi, oltre che per estorsione. Lo beccarono mentre era andato a fare la spesa con la sua compagna romena, Luiza Boetz di venticinque anni. Cicciariello si faceva chiamare Antonio e risultava un semplice imprenditore italiano di cinquantuno anni. Ma che qualcosa non andasse nella sua vita, la compagna doveva averlo intuito, visto che Luiza, per raggiungerlo a Kro-sno, vicino a Cracovia, in Polonia, aveva fatto un giro tortuoso in treno, per depistare eventuali segugi di polizia. Un viaggio con varie tappe, l'avevano pedinata attraverso tre frontiere e poi l'inseguimento in auto fino alla periferia della città polacca. Cicciariello l'avevano fermato alla cassa del supermercato, si era tagliato i baffi, stirato i capelli crespi, era dimagrito. Si era trasferito in Ungheria ma continuava a incontrare la sua compagna in Polonia. Aveva enormi affari, allevamenti, terre edificabili acquistate, mediazioni con imprenditori del luogo. Il rappresentante italiano del SECI, il centro dell'Europa sudorientale contro la criminalità transfrontaliera, aveva denunciato che Schiavone e i suoi uomini andavano spesso in Romania e avevano avviato affari importanti nelle città di Barlad (est del paese), Sinaia (centro), Cluj (ovest) e anche sul litorale del Mar Nero. Cicciariello Schiavone aveva due amanti: oltre a Luiza Boetz anche Cristina Coremanciau, anche lei romena. A Casale la notizia del suo arresto, "per mezzo di una donna", sembrò giungere come uno sberleffo al boss. Un giornale locale titolò, quasi come per sbeffeggiarlo, "Cicciariello arrestato con l'amante". In realtà le due amanti erano vere e proprie manager che avevano curato per lui gli investimenti in Polonia e Romania, divenendo fondamentali per i suoi affari. Cicciariello era uno degli ultimi boss della famiglia Schiavone a essere arrestato. Molti dirigenti e gregari del clan dei Casalesi erano finiti dentro in vent'anni di potere e faide. Il maxiprocesso "Spartacus", chiamato come il gladiatore ribelle che proprio da queste terre tentò la più grande insurrezione che Roma avesse conosciuto, raccoglieva la summa delle indagini contro il cartello dei Casalesi e tutte le sue diramazioni.
Il giorno della sentenza andai al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Infilai la mia Vespa in un interstizio tra due auto, e riuscii a entrare in tribunale. Mi aspettavo telecamere, macchine fotografiche. Ce n'erano pochissime, e solo di giornali e tv locali. Carabinieri e poliziotti invece erano dappertutto. Circa duecento. Due elicotteri sorvolavano il tribunale a bassa quota, lasciando entrare il rumore delle pale nelle orecchie di tutti. Cani antibomba, volanti. Una tensione altissima. Eppure la stampa nazionale e le tv erano assenti. Il più grande processo contro un cartello criminale per numerodi imputati e condanne proposte era stato completamente
ignorato dai media. Gli addetti ai lavori conoscono il processo "Spartacus" per un numero: 3615, che è il numero del registro generale attribuito all'inchiesta con circa milletrecento inquisiti avviata dalla DDA nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone.
Un processo durato sette anni e ventuno giorni, per seicen-toventisei udienze complessive, n processo di mafia più complesso in Italia negli ultimi quindici anni. Cinquecento testimoni sentiti, oltre ai ventiquattro collaboratori di giustìzia, di cui sei imputati. Acquisiti novanta faldoni di atti, sentenze di altri processi, documenti, intercettazioni. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, arrivarono anche le inchieste-figlie di "Spartacus". "Spartacus 2" e "Regi Lagni", ossia il recupero dei canali borbonici che risalivano al diciottesimo secolo, che da allora non ricevevano ristrutturazione adeguata. H recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono — secondo le accuse — appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche, e invece fatti defluire verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt'Italia negli anni successivi. E poi il processo "Aima", le truffe che i clan Casalesi avevano fatto nei famosi centri dello scamazzo, ossia dove la Comunità europea raccoglieva, scamazzandola, la fratta prodotta in eccesso dando in cambio un indennizzo ai contadini. Nei grandi crateri dove veniva sversata la frutta, i clan ci gettavano monnezza, ferro, rimasugli di lavori edili. Prima però tutta la schifezza se la facevano pesare come se fosse stata frutta. E ricevevano ovviamente i soldi di indennizzo, mentre la frutta dei loro appezzamenti continuava a essere venduta ovunque. Furono emessi centotrentuno decreti di sequestro riguardanti imprese, terreni, aziende agricole, per un valore complessivo di centinaia di milioni di euro. Destinatarie dei sequestri anche due società di calcio, l'Albanova, che militava nel campionato C2, e il Casal di Principe.
L'inchiesta prese in esame anche l'imposizione da parte del clan dell'affidamento di subappalti per opere pubbliche a imprese vicine all'organizzazione, con la conseguente gestione di forniture di calcestruzzo e le attività di movimentazione terra. Un altro rilevante capitolo dell'inchiesta concerneva le truffe ai danni della CEE, in particolare riguardo ai contributi ottenuti illecitamente nel comparto agro-alimentare. E poi centinaia di omicidi, alleanze imprenditoriali. Mentre ero lì in attesa della sentenza come tutti, pensavo che quello non era un processo come altri, non un semplice e ordinario processo contro famiglie camorriste della provincia meridionale. Quello sembrava una sorta di processo alla storia, come una Norimberga di una generazione di camorra, ma a differenza dei generalissimi del Reich, molti dei camorristi che erano lì continuavano a comandare, a essere i riferimenti dei loro imperi. Una Norimberga senza vincitori. Gli imputati nelle gabbie, in silenzio. Sandokan era in videoconferenza, immobile nel carcere di Viterbo. Sarebbe stato troppo rischioso spostarlo. In aula si sentiva solo il vociare degli avvocati: oltre venti studi legali coinvolti e più di cinquanta tra avvocati e assistenti avevano studiato, seguito, osservato, difeso. I parenti degli imputati erano tutti ammucchiati in una saletta di fianco all'aula bunker, fissavano tutti il monitor. Quando il presidente della corte Catello Marano prese le trenta pagine del dispositivo del processo, calò il silenzio. I respiri pesanti, il deglutire di centinaia di gole, il ticchettìo di centinaia di orologi, il vibrare silenzioso di decine di cellulari privati della suoneria. Il silenzio era nervoso, accompagnato da un'orchestra di suoni d'ansia di contorno. Il presidente iniziò a leggere prima l'elenco dei condannati, poi quello degli assolti. Ventuno ergastoli, oltre settecentocinquanta anni di galera inflitti. Per ventuno volte il presidente ripetè la condanna di carcere a vita, e spesso ripeteva anche i nomi dei condannati. E altre settanta volte diede lettura degli anni che altri uomini, i gregari e i manager, dovevano trascorrere in carcere per pagare il prezzo delle loro alleanze con il terribile potere casalese. All'una e mezzo tutto stava per concludersi. Sandokan chiese di parlare. Si agitava, voleva reagire alla sentenza, ribadire la sua tesi, quella del suo collegio difensivo: che lui era un imprenditore vincente, che un complotto di magistrati invidiosi e marxisti aveva considerato la potenza della borghesia dell'agro aversano una forza criminale e non il frutto di capacità imprenditoriali ed economiche. Voleva sbraitare che la sentenza era un'ingiustizia. Tutti i morti del casertano, nel suo solito ragionamento, venivano ascritti a faide dovute alla cultura contadina del posto e non a conflitti di camorra. Ma a Sandokan quella volta non fu permesso di parlare. Venne zittito come uno scolaro rumoroso. Iniziò a sbraitare e i giudici fecero togliere l'audio. Si continuò a vedere un omone barbuto che si dimenava sino a quando anche il video si spense. L'aula si svuotò immediatamente, i poliziotti e i carabinieri andarono lentamente via, mentre l'elicottero continuava a sorvolare l'aula bunker. È strano, ma non avevo la sensazione che il clan dei Casalesi fosse stato sconfitto. Molti uomini erano stati sbattuti per un po' di anni in carcere, dei boss non sarebbero più usciti di galera per tutta la loro vita, qualcuno magari avrebbe col tempo deciso di pentirsi e riprendersi così un po' di esistenza fuori dalle sbarre. La rabbia di Sandokan doveva essere quella asfissiante dell'uomo di potere che possiede nella testa l'intera mappa del suo impero, ma non può controllarla direttamente.
I boss che decidono di non pentirsi vivono di un potere metafisico, quasi immaginario, e devono fare di tutto per dimenticare gli imprenditori che loro stessi hanno sostenuto e lanciato e che, non essendo membri del clan, riescono a farla franca. I boss, se ne avessero voglia, potrebbero far finire in galera anche loro, ma dovrebbero pentirsi, e questo interromperebbe immediatamente la loro autorità massima e metterebbe a rischio tutti i loro familiari. E poi, cosa ancora più tragica per un boss, molte volte i percorsi dei loro danari, i loro investimenti legali, non riuscirebbero neanche a map-parli. Pur confessando, pur svelando il loro potere non saprebbero mai sino in fondo dove sono finiti i loro soldi. I boss pagano sempre, non possono non pagare. Ammazzano, gestiscono batterie militari, sono il primo anello dell'estrazione di capitale illegale e questo renderà i loro crimini sempre identificabili e non diafani come i crimini economici dei loro colletti bianchi. Del resto i boss non possono essere eterni. Cutolo lascia a Bardellino, Bardellino a Sandokan, San-dokan a Zagaria, La Monica a Di Lauro, Di Lauro agli Spagnoli e loro a chissà quali altri. La forza economica del Sistema camorra è proprio nel continuo ricambio di leader e di scelte criminali. La dittatura di un uomo nei clan è sempre a breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato non esplorandone di nuovi. Invece che divenire un valore aggiunto all'economia criminale diverrebbe ostacolo agli affari. E allora appena un boss raggiunge il potere, dopo poco emergeranno nuove figure pronte a prenderne il posto con la volontà di espandersi e camminare sulle spalle dei giganti che loro stessi hanno contribuito a creare. Lo ricordava sempre uno dei più attenti osservatori delle dinamiche di potere, il giornalista Riccardo Orioles: "La criminalità non è il potere, ma uno dei poteri". Non ci sarà mai un boss che vuole sedere al governo. Se la camorra fosse tutto il potere non ci sarebbe il suo business che risulta essenziale nel meccanismo dello scalino legale e illegale. In questo senso ogni arresto, ogni maxiprocesso, sembra piuttosto un modo per avvicendare capi, per interrompere fasi, piuttosto che un'azione capace di distruggere un sistema di cose.
I visi pubblicati in successione il giorno dopo dai giornali, uno a fianco all'altro, i visi dei boss, dei gregari, dei ragazzini affiliati e di vecchi avanzi di galera, rappresentavano non un girone infernale di criminali, ma tasselli di un mosaico di potere che nessuno per vent'anni aveva potuto ignorare o sfidare. Dopo la sentenza "Spartacus", i boss in carcere iniziarono a lanciare minacce implicite ed esplicite ai giudici, ai magistrati, ai giornalisti, a tutti coloro che ritenevano responsabili di aver fatto di un manipolo di manager del cemento e delle bufale dei killer agli occhi della legge. II senatore Lorenzo Diana continuava a essere il bersaglio privilegiato del loro odio. Con lettere inviate a giornali locali, esplicite minacce lanciate durante i processi. Subito dopo la
sentenza "Spartacus" alcune persone erano entrate nell'allevamento di trote del fratello del senatore, le avevano sparse d'intorno, e fatte morire lentamente, lasciandole dimenare in terra, asfissiate dall'aria. Alcuni pentiti avevano addirittura segnalato tentativi di agguato da parte di "falchi" dell'organizzazione contro il senatore. Operazioni poi fermate dalla mediazione dei settori più diplomatici del clan. Ad averli dissuasi era stata anche la scorta. La scorta armata non è mai un limite per i clan. Non hanno paura di auto blindate e poliziotti, ma è un segnale, il segnale che quell'uomo che vogliono eliminare non è solo, non potranno facilmente sbarazzarsene come se si trattasse di un individuo la cui morte non interesserebbe che la propria cerchia di familiari. Lorenzo Diana è uno di quei politici che ha deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d'Aversa, ha vissuto osservando da vicino l'emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all'altro possa risvegliarsi l'attenzione dei media nazionali sul potere casale-se, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai.