L'"Operazione Houdini" del 2004 ha dimostrato che un unico impianto in Veneto gestiva illegalmente circa duecentomila tonnellate di rifiuti l'anno. Il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici impone prezzi qhe vanno dai ventuno a sessantadue centesimi al chilo. I clan forniscono lo stesso servizio a nove o dieci centesimi al chilo. Gli stakeholder campani sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell'80 per cento sui prezzi ordinari.
La reale forze dei mediatori, degli stakeholder che lavorano con la camorra, è la capacità di garantire un servizio in ogni sua parte, mentre i mediatori delle imprese legali propongono prezzi maggiorati, esenti dal trasporto. Eppure gli stakeholder non vengono quasi mai affiliati nei clan. Non serve. La non affiliazione è un vantaggio per le due parti. Gli stakeholder possono lavorare per diverse famiglie, come battitori liberi, senza dover subire obblighi militari, particolari imposizioni, senza divenire pedine da battaglia. In ogni operazione della magistratura ne beccano diversi, ma le condanne non sono mai pesanti, poiché è difficile dimostrare la loro diretta responsabilità, dato che formalmente non prendono parte a nessun passaggio della catena dello smaltimento criminale dei rifiuti.
Col tempo ho imparato a vedere con gli occhi degli stakeholder. Uno sguardo diverso da quello del costruttore. Un costruttore vede lo spazio vuoto come qualcosa da riempire, cerca di mettere il pieno nel vuoto; gli stakeholder pensano invece a come trovare il vuoto nel pieno.
Franco, quando camminava, non osservava il paesaggio, ma pensava a come poterci ficcare qualcosa dentro. Come vedere tutto l'esistente a mo' di grande tappeto e cercare nelle montagne, ai lati delle campagne, il lembo da sollevare per spazzarci sotto tutto quanto è possibile. Una volta, mentre camminavamo, Franco notò la piazzola abbandonata di una pompa di benzina, e pensò immediatamente che i serbatoi sotterranei avrebbero potuto ospitare decine di piccoli fusti di rifiuti chimici. Una tomba perfetta. E così era la sua vita, una continua ricerca di vuoto. Franco poi aveva cessato di fare lo stakeholder, di macinare chilometri con le auto, a presentarsi agli imprenditori del nord est, a essere chiamato in mezza Italia. Aveva messo su un corso di formazione professionale. Gli allievi più importanti di Franco erano cinesi. Venivano da Hong Kong. Gli stakeholder orientali avevano imparato da quelli italiani a trattare con le aziende d'ogni parte d'Europa, a proporre prezzi e soluzioni veloci. Quando in Inghilterra avevano aumentato i costi dello smaltimento, si presentarono gli stakeholder cinesi allievi dei campani. A Rotterdam la polizia portuale olandese ha scoperto nel marzo 2005, in partenza per la Cina, mille tonnellate di rifiuti urbani inglesi spacciati ufficialmente per carta da macero da riciclare. Un milione di tonnellate di rifiuti hi-tech ogni anno partono dall'Europa e vengono sversati in Cina. Gli stakeholder li dislocano a Guiyu, a nord est di Hong Kong. Intombati, stipati sottoterra, affondati nei laghi artificiali. Come nel casertano. Hanno così velocemente inquinato Guiyu che le falde acquifere sono completamente compromesse, al punto da essere costretti a importare dalle province vicine l'acqua potabile. Il sogno degli stakeholder di Hong Kong è fare di Napoli il porto di snodo dei rifiuti europei, un centro di raccolta galleggiante dove poter stipare nei container l'oro di spazzatura da intombare nelle terre di Cina.
Gli stakeholder campani erano i migliori, avevano battuto la concorrenza dei calabresi, dei pugliesi e dei romani perché, grazie ai clan, avevano fatto delle discariche campane un enorme discount, senza soluzione di continuità. In trent'anni di traffici sono riusciti a incamerare di tutto, a smaltire ogni cosa con un unico obiettivo: abbattere i costi e aumentare le quantità da appaltare. L'inchiesta "Re Mida" del 2003, che prende il nome da una telefonata intercettata di un trafficante: "E noi appena tocchiamo la monnezza la facciamo diventare oro", mostrava che ogni passaggio del ciclo dei rifiuti riceveva la sua quota di profitto.
Quando ero in macchina con Franco ascoltavo le sue telefonate. Dava consulenze immediate su come e dove smaltire i rifiuti tossici. Parlava di rame, arsenico, mercurio, cadmio, piombo, cromo, nichel, cobalto, molibdeno, passava dai residui di conceria a quelli ospedalieri, dai rifiuti urbani ai pneumatici, spiegava come trattarli, aveva in mente interi elenchi di persone e siti di smaltimento a cui rivolgersi. Pensavo ai veleni mischiati al compost, pensavo alle tombe per fusti ad alta tossicità scavate nel corpo delle campagne. Divenivo pallido. Franco se n'accorgeva.
"Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakeholder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo alle loro aziende?"
Franco era nato in un luogo che l'aveva addestrato bene, sin da bambino. Sapeva che negli affari si guadagna o si perde — non c'è spazio per altro — e lui non voleva perdere, né far perdere coloro per cui lavorava. Ciò che si diceva e mi diceva, le scuse che si raccontava erano però dati feroci, una lettura inversa rispetto a come avevo sino ad allora visto lo smaltimento dei rifiuti tossici. Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla Procura di Napoli e dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni '90 a oggi, è possibile comprendere che il vantaggio economico per le aziende che si sono rivolte a smaltitori della camorra è quantificabile in cinquecento milioni di euro. Ero cosciente che le inchieste giudiziarie avevano scoperto solo una percentuale parziale delle infrazioni e quindi mi veniva come una vertigine. Molte aziende settentrionali erano riuscite a crescere, assumere, erano riuscite a rendere competitivo l'intero tessuto industriale del paese al punto da poterlo spingere in Europa, liberando le aziende dalla zavorra del costo dei rifiuti che gli era stata alleggerita dai clan napoletani e casertani. Schiavone, Maliardo, Moccia, Bidognetti, La Torre e tutte le altre famiglie avevano offerto un servizio criminale in grado di rilanciare l'economia e renderla competitiva. L'operazione "Cassiopea" del 2003 dimostrò che ogni settimana partivano dal nord al sud quaranta Tir ricolmi di rifiuti e — secondo la ricostruzione degli inquirenti — venivano sversati, seppelliti, gettati, interrati cadmio, zinco, scarto di vernici, fanghi da depuratori, plastiche varie, arsenico, prodotti delle acciaierie, piombo. La direttrice nord-sud era la strada privilegiata dai trafficanti. Molte imprese venete e lombarde, attraverso gli stakeholder, avevano adottato un territorio nel napoletano o nel casertano trasformandolo in un'enorme discarica. Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipo, di cui un milione solo nella provincia di Caserta. Il casertano è un'area che nel "piano regolatore" dei clan è stata assegnata alla sepoltura dei rifiuti.
Un ruolo rilevante, nella geografia dei traffici illeciti, viene svolto dalla Toscana, la regione più ambientalista d'Italia. Qui si concentrano diverse filiere dei traffici illegali, dalla produzione all'intermediazione, tutte emerse in almeno tre inchieste: l'operazione "Re Mida", l'operazione "Mosca" e quella denominata "Agricoltura biologica" del 2004.
Dalla Toscana non arrivano soltanto ingenti quantitativi di rifiuti gestiti illegalmente. La regione diviene una vera e propria base operativa fondamentale per tutta una serie di soggetti impegnati in queste attività criminali: dagli stakeholder ai chimici conniventi, sino ai proprietari dei siti di compostaggio che permettono di fare le miscele. Ma il territorio del riciclaggio dei rifiuti tossici sta aumentando i suoi perimetri. Altre inchieste hanno rivelato il coinvolgimento di regioni che sembravano immuni, come l'Umbria e il Molise. Qui, grazie all'operazione "Mosca", coordinata dalla Procura della Repubblica di Larino nel 2004, è emerso lo smaltimento illecito di centoventi tonnellate di rifiuti speciali provenienti da industrie metallurgiche e siderurgiche. I clan erano riusciti a triturare trecentoventi tonnellate di manto stradale dismesso ad altissima densità catramosa, e avevano individuato un sito di compostaggio disponibile a mischiarlo'a terra, e quindi a occultarlo nelle campagne umbre. Il riciclo arriva a metamorfosi capaci di guadagnare esponenzialmente a ogni singolo passaggio. Non bastava nascondere i rifiuti tossici, ma si poteva trasformarli in fertilizzanti, ricevendo quindi danaro per vendere i veleni. Quattro ettari di terreno a ridosso del litorale molisano furono coltivati con concime ricavato dai rifiuti delle concerie. Vennero rinvenute nove tonnellate di grano contenenti un'elevatissima concentrazione di cromo. I trafficanti avevano scelto il litorale molisano — nel tratto da Termoli a Campomarino — per smaltire abusivamente rifiuti speciali e pericolosi provenienti da diverse aziende del nord Italia. Ma è il Veneto il vero centro di stoccaggio, secondo le indagini coordinate negli ultimi anni dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Da anni alimenta i traffici illegali sul territorio nazionale. Le fonderie settentrionali fanno smaltire le scorie senza precauzioni, mischiandolo al compost usato per concimare centinaia di campi agricoli.
Gli stakeholder campani spesso utilizzano le strade del narcotraffico che i clan mettono a disposizione per trovare nuovi territori da scavare, nuove tombe da riempire. Già nell'inchiesta "Re Mida" diversi trafficanti stavano tessendo rapporti per organizzare un traffico di rifiuti in Albania e in Costarica. Ma ogni canale ormai è diventato possibile. Traffici verso est, verso la Romania, dove i Casalesi hanno centinaia e centinaia di ettari di terreno; o nei paesi africani, Mozambico, Somalia e Nigeria. Tutti paesi dove i clan hanno da sempre appoggi e contatti. Una delle cose che mi sconvolgeva era vedere i volti dei colleghi di Franco, i visi degli stakeholder campani tesi e preoccupati i giorni dello tsunami. Appena osservavano le immagini del disastro nei telegiornali, impallidivano. Era come se ognuno di loro avesse mogli, amanti e figli in pericolo. In realtà in pericolo c'era qualcosa di più prezioso: i loro affari. A causa dell'onda del maremoto infatti vennero trovati sulle spiagge della Somalia, tra Obbia e Warsheik, centinaia di fusti stracolmi di rifiuti pericolosi o radioattivi intombati negli anni '80 e '90. L'attenzione avrebbe potuto bloccare i loro nuovi traffici, le nuove valvole di sfogo. Ma il rischio fu subito scongiurato. Le campagne di beneficenza per i profughi distolsero l'attenzione sui bidoni di veleni fuoriusciti dalla terra, che galleggiavano a fianco dei cadaveri. Il mare stesso stava divenendo territorio di smaltimento continuo. Sempre più i trafficanti riempivano le stive delle navi di rifiuti e poi, simulando un incidente, le lasciavano affondare. Il guadagno era doppio. L'assicurazione pagava per l'incidente e i rifiuti si intombavano in mare, sul fondo.
Mentre i clan trovavano spazio ovunque per i rifiuti, l'amministrazione della regione Campania dopo dieci anni di commissariamento per infiltrazioni camorristiche non riusciva più a trovare il modo di smaltire la sua spazzatura. In Campania finivano illegalmente i rifiuti d'ogni parte d'Italia, mentre la monnezza campana nelle situazioni di emergenza veniva spedita in Germania a un prezzo di smaltimento cinquanta volte superiore a quello che la camorra proponeva ai suoi clienti. Le indagini segnalano che solo nel napoletano su diciotto ditte di raccoglimento rifiuti, quindici sono direttamente legate ai clan camorristici.
Il territorio è ingolfato di spazzatura, e sembra impossibile trovare soluzione. Per anni i rifiuti sono stati ammonticchiati in ecoballe, enormi cubi di spazzatura tritata e imballata in fasce bianche. Solo per smaltire quelle accumulate sino a ora ci vorrebbero cinquantasei anni. L'unica soluzione che sembra essere proposta è quella degli inceneritori. Come ad Acerra, che ha generato rivolte e proteste feroci che hanno censurato persino la semplice idea di un possibile inceneritore in quelle zone. Verso gli inceneritori i clan hanno un atteggiamento ambivalente. Da un lato sono contrari, poiché vorrebbero continuare a vivere di discariche e incendi, e l'emergenza permette in più di speculare sulle terre di smaltimento delle ecoballe, terre che loro stesso affittano'; Nel caso però si dovesse realizzare l'inceneritore sono già pronti per entrare in subappalto per la costruzione, e successivamente per la gestione. Laddove le inchieste giudiziarie non sono ancora arrivate, la popolazione è già giunta. Terrorizzata, nervosa, spaventata. Temono che gli inceneritori possano diventare delle fornaci perenni dei rifiuti di mezz'Italia a disposizione dei clan, e quindi tutte le garanzie sulla sicurezza ecologica dell'inceneritore andrebbero a vanificarsi contro i veleni che i clan imporrebbero di bruciare. Migliaia di persone sono in stato di allerta ogni qual volta si dispone la riapertura di una discarica esaurita. Temono che possano arrivare da ogni parte rifiuti tossici spacciati per rifiuti ordinari, e così resistono sino allo stremo piuttosto che rischiare di fare del proprio paese un deposito incontrollato di nuova feccia. A Basso dell'Olmo, vicino Salerno, quando il commissario regionale, nel febbraio 2005, tentò di riaprire la discarica iniziarono a formarsi spontaneamente picchetti di cittadini che impedivano l'arrivo dei camion e l'accesso alla discarica. Un presidio continuo, costante, a ogni costo. Carmine Iuorio, trentaquattro anni, durante una notte terribilmente fredda, mentre teneva il presidio, è morto assiderato. Il mattino, quando sono andati a svegliarlo, aveva i peli della barba ghiacciati e le labbra livide. Era cadavere da almeno tre ore.
L'immagine di una discarica, di una voragine, di una cava, divengono sempre più sinonimi concreti e visibili di pericolosità mortale per chi ci vive intorno. Quando le discariche stanno per esaurirsi si dà fuoco ai rifiuti. C'è un territorio nel napoletano che ormai è definito la terra dei fuochi, fi triangolo Giugliano-Villaricca-Qualiano. Trentanove discariche, di cui ventisette con rifiuti pericolosi. Un territorio in cui aumentano del 30 per cento all'anno. La tecnica è collaudata e viene messa in pratica a ritmo costante. I più bravi a organizzare i fuochi sono i ragazzini ROM. I clan gli danno cinquanta euro a cumulo bruciato. La tecnica è semplice. Circoscrivono ogni enorme cumulo di rifiuti con i nastri delle bobine di videocassette, poi gettano alcol e benzina su tutti i rifiuti e, facendo dei nastri una miccia enorme, si allontanano. Con un accendino danno fuoco al nastro e tutto in pochi secondi diviene una foresta di fuoco, come avessero sganciato bombe al napalm. Dentro al fuoco gettano resti delle fonderie, colle e morchie di nafta. Fumo nerissimo e fuoco contaminano di diossina ogni centimetro di terra. L'agricoltura di questi luoghi, che esportava verdura e frutta fino in Scandinavia, crolla a picco. I frutti spuntano malati, le terre divengono infertili. Ma la rabbia dei contadini e lo sfacelo diventano ennesimo elemento di vantaggio, poiché i proprietari terrieri disperati svendono le proprie coltivazioni, e i clan acquistano nuove terre, nuove discariche a basso, bassissimo costo. Intanto si crepa di tumore continuamente. Un massacro silenzioso, lento, difficile da monitorare, poiché c'è un esodo verso gli ospedali del nord per quelli che cercano di vivere il più possibile. L'Istituto Superiore di Sanità ha segnalato che la mortalità per cancro in Campania, nelle città dei grandi smaltimenti di rifiuti tossici, è aumentata negli ultimi anni del 21 per cento. Bronchi che marciscono, trachee che iniziano ad arrossarsi e poi la TAC in ospedale, e le macchie nere che denunciano il tumore. Chiedendo il luogo di provenienza dei malati campani spesso viene fuori l'intero percorso dei rifiuti tossici.