Il preservativo mondragonese era Augusto La Torre. Il boss aveva deciso di vegliare anche sulla salute dei suoi sudditi. Mondragone divenne una sorta di tempio per la sicurezza totale dalla più temuta delle malattie infettive. Mentre il mondo s'appestava di HIV, il nord del casertano era strettamente sotto controllo. Il clan era attentissimo e così teneva sott'osservazione le analisi di tutti. Per quel che poteva, aveva l'elenco completo dei malati, il territorio non doveva infettarsi. Così seppero subito che un uomo vicino ad Augusto, Fernando Brodella si era beccato I'HIV. Poteva essere rischioso, frequentava le ragazze del paese. Non pensarono di affidarlo a qualche buon medico né di pagargli delle cure adeguate: non fecero come il clan Bidognetti che pagava le operazioni nelle migliori cliniche europee ai propri affiliati, affidandoli ai medici più abili. Brodella fu avvicinato e ucciso a sangue freddo. Eliminare i malati per bloccare l'epidemia: era questo l'ordine del clan. Una malattia infettiva e per di più trasmessa con l'atto meno controllabile, il sesso, poteva essere fermata solo arginando per sempre gli infetti. I malati non avrebbero contagiato nessuno con certezza solo se gli si toglieva la possibilità di vivere.
Anche gli investimenti dei propri capitali in Campania dovevano essere sicuri. Avevano infatti comprato una villa che si trova nel territorio di Anacapri, una struttura che ospitava la stazione locale dei carabinieri. Ricevendo il fitto dai carabinieri erano certi di non incorrere in spiacevoli mancanze. I La Torre, quando capirono che la villa avrebbe reso di più col turismo, sfrattarono i carabinieri e frazionando la struttura in sei appartamenti con giardino e posto auto, la trasformarono in un centro turistico, prima che l'Antimafia arrivasse a sequestrare tutto. Investimenti lindi, sicuri, senza nessun azzardo speculativo sospetto.
Dopo il pentimento di Augusto, il nuovo boss Luigi Fragno-li sempre fedelissimo dei La Torre iniziò ad avere problemi con alcuni affiliati come Giuseppe Mancone detto "Rambo". Vaga somiglianza con Stallone, corpo pompato in palestra, stava mettendo su una piazza di spaccio che in breve l'avrebbe portato a essere un riferimento importante, e da lì a poco poteva scalciare i vecchi boss ormai con un carisma in frantumi dopo il pentimento. Secondo la Procura Antimafia, i clan mondrago-nesi avevano chiesto alla famiglia Birra di Ercolano di appaltargli alcuni killer. Così, per eliminare "Rambo" giungono a Mondragone, nell'agosto 2003, due ercolanesi. Arrivarono su quegli enormi scooteroni, poco agevoli ma talmente minacciosi d'aspetto che non si può resistere a guidarli per un agguato. Non avevano mai messo piede a Mondragone, ma riuscirono facilmente a individuare che la persona da uccidere era lì al Roxy Bar, come sempre. Lo scooter si fermò. Scese un ragazzo che a passo sicuro si avvicinò a "Rambo", gli scaricò addosso un intero caricatore e poi ritornò in sella allo scooter:
"Tutto a posto? Hai fatto?" ,
"Sì, ho fatto vai vai vai…"
Vicino al bar c'era un gruppo di ragazze, si stavano organizzando per il ferragosto. Appena videro arrivare il ragazzo di corsa capirono subito, non avevano confuso il rumore di un'automatica con quello dei petardi. Tutte si sdraiarono con il viso per terra, temendo di essere viste dal killer e quindi poter diventare dei testimoni. Ma una non abbassò lo sguardo. Una di loro continuò a fissare il killer senza abbassare gli occhi, senza schiacciare il suo seno sul catrame o coprirsi il viso con le mani. Era una maestra d'asilo di trentacinque anni. La donna testimoniò, fece i riconoscimenti, denunciò l'agguato. Nella molteplicità di motivi per cui poteva tacere, far finta di nulla, tornare a casa e vivere come sempre c'era la paura, il terrore delle intimidazioni e ancor più il senso dell'inutile, far arrestare un killer, uno dei tanti. E invece la maestra mondra-gonese trovò nella cianfrusaglia di ragioni per tacere un'unica motivazione, quella della verità. Una verità che ha il sapore della naturalezza, come un gesto solito, normale, ovvio, necessario come il respiro stesso. Denunciò senza chiedere nulla in cambio. Non pretese stipendi, scorta, non impose il prezzo alla sua parola. Svelò ciò che aveva visto, descrisse il viso del killer, gli zigomi spigolosi, le sopracciglia folte. Dopo aver sparato lo scooter fuggì per il paese sbagliando strada più volte, infilandosi in vicoli ciechi, tornando indietro. Piuttosto che killer sembravano turisti schizofrenici. Al processo scaturito dalle testimonianze della maestra venne condannato all'ergastolo Salvatore Cefariello, ventiquattro anni, killer considerato al soldo dei clan ercolanesi. Il magistrato che ha raccolto la testimonianza della maestra, la definì "una rosa nel deserto" spuntata in una terra dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto.
Eppure questa confessione le ha reso la vita difficile, è come se avesse impigliato il filo in un gancio e l'intera sua esistenza si fosse sfilacciata assieme al procedere della sua coraggiosa testimonianza. Stava per sposarsi ed è stata lasciata, ha perso il lavoro, è stata trasferita in una località protetta con uno stipendio minimo passatole dallo Stato per sopravvivere, una parte della famiglia si è allontanata da lei e una solitudine abissale le è crollata sulle spalle. Una solitudine che esplode violenta nel quotidiano quando si ha voglia di ballare e non si ha nessuno con cui farlo, cellulari che suonano a vuoto e amici che lentamente si diradano sino a non farsi sentire più. Non è la confessione in sé che fa paura, non è l'aver indicato un killer che genera scandalo. Non è così banale la logica d'omertà. Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere e questo in una terra dove verità è ciò che ti fa guadagnare e menzogna quello che ti fa perdere, diviene una scelta inspiegabile. Così succede che le persone che ti girano vicino si sentono in difficoltà, si sentono scoperte dallo sguardo di chi ha rinunciato alle regole della vita stessa, che loro invece hanno totalmente accettato. Hanno accettato senza vergogna, perché tutto sommato così deve andare, perché è così che è sempre andato, perché non si può mutare tutto con le proprie forze e quindi è meglio risparmiarle e mettersi in carreggiata e vivere come è concesso di vivere.
Ad Abeerden avevo sbattuto gli occhi contro la materia del successo dell'imprenditoria italiana. È strano osservare queste propaggini lontane, conoscendo il loro centro. Non so come descriverlo ma avere dinanzi i ristoranti, gli uffici, le assicurazioni, i palazzi, è come sentirsi presi per le caviglie, girati a testa in giù e poi sbattuti sino a far cadere dalle tasche gli spiccioli, le chiavi di casa e tutto ciò che può uscire dai pantaloni e dalla bocca, persino l'anima se è possibile commercializzarla. I flussi di capitale partivano ovunque, come raggiera che si alimentava succhiando energia dal proprio centro. Saperlo non è medesima cosa che vederlo. Avevo accompagnato Matteo a un colloquio di lavoro. Ovviamente l'avevano preso. Voleva che rimanessi anch'io ad Aberdeen.
"Qua basta essere quello che sei, Robbe'…"
Matteo aveva avuto bisogno di un'origine campana, aveva avuto bisogno di quell'alone per essere valutato per il suo curriculum, la sua laurea, per la sua voglia di fare. La stessa origine che in Scozia lo portava a essere un cittadino con tutti i normali diritti, in Italia l'aveva costretto a essere considerato poco più di uno scarto d'uomo, senza protezione, senza interesse, uno sconfitto in partenza perché non aveva fatto partire la propria vita nei percorsi giusti. D'improvviso gli era esplosa una felicità mai vista prima. Più andava su di giri, più mi saliva un'amara malinconia. Non sono mai riuscito a sentirmi distante, abbastanza distante da dove sono nato, lontano dai comportamenti delle persone che odiavo, realmente diverso dalle dinamiche feroci che schiacciavano vite e desideri. Nascere in certi luoghi significa essere come il cucciolo del cane da caccia che nasce già con l'odore di lepre nel naso. Contro ogni volontà, dietro la lepre ci corri lo stesso: anche se poi dopo averla raggiunta, puoi lasciarla scappare serrando i canini. E io riuscivo a capire i tracciati, le strade, i sentieri, con ossessione inconsapevole, con una capacità maledetta di capire sino in fondo i territori di conquista.
Volevo soltanto andarmene dalla Scozia, andarmene per non metterci più piede. Partii il prima possibile. Sull'aereo era difficile prendere sonno, i vuoti d'aria, il buio fuori dal finestrino, mi prendevano direttamente alla gola come se una cravatta stringesse forte il suo nodo proprio sul pomo d'Adamo. La claustrofobia forse non era dovuta al posto striminzito e all'aereo minuscolo, né al buio fuori dal finestrino: ma alla sensazione di sentirmi stritolato in una realtà di cose che somigliava a un pollaio di bestie affamate e ammassate, pronte a mangiare per essere mangiate. Come se tutto fosse un unico territorio con un'unica dimensione e un'unica sintassi ovunque comprensibile. Una sensazione di non scampo, una costrizione a essere parte della grande battaglia o a non essere. Tornavo in Italia con in mente chiaramente le due strade più rapide di qualsiasi alta velocità, le quali veicolano in un senso i capitali che vanno a sfociare nella grande economia europea, e nell'altro portavano a sud tutto ciò che altrove avrebbe infettato; facendolo entrare e uscire per le maglie forzate dell'economia aperta e flessibile, riuscendo in un ciclo continuo di trasformazione a creare altrove ricchezze che mai avrebbero potuto innescare qualsivoglia forma di sviluppo nei luoghi dove si originava la metamorfosi. I rifiuti avevano gonfiato la pancia del sud Italia, l'avevano estesa come quello di un ventre gravido, il cui feto non sarebbe mai cresciuto e che avrebbe abortito danaro per poi subito ringravidarsi, fino di nuovo ad abortire, e nuovamente riempirsi sino a sfasciare il corpo, ingolfare le arterie, otturare i bronchi, distruggere le sinapsi. Continuamente, continuamente, continuamente.
Terra dei fuochi
Immaginare non è complicato. Formarsi nella mente una persona, un gesto, o qualcosa che non esiste, non è difficile. Non è complesso immaginare persino la propria morte. Ma la cosa più complicata è immaginare l'economia in tutte le sue parti. I flussi finanziari, le percentuali di profitto, le contrattazioni, i debiti, gli investimenti. Non ci sono fisionomie da visualizzare, cose precise da ficcarsi in mente. Si possono immaginare le diverse determinazioni dell'economia, ma non i flussi, i conti bancari, le operazioni singole. Se si prova a immaginarla, l'economia, si rischia di tenere gli occhi chiusi per concentrarsi e spremersi sino a vedere quelle psichedeliche deformazioni colorate sullo schermo della palpebra.
Sempre più tentavo di ricostruire in mente l'immagine dell'economia, qualcosa che potesse dare il senso della produzione, della vendita, le operazioni dello sconto e dell'acquisto. Era impossibile trovare un'organigramma, una precisa compattezza iconica. Forse l'unico modo per rappresentare l'economia nella sua corsa era intuire ciò che lasciava, inseguirne gli strascichi, le parti che come scaglie di pelle morta lasciava cadere mentre macinava il suo percorso.
Le discariche erano l'emblema più concreto d'ogni ciclo economico. Ammonticchiano tutto quanto è stato, sono lo strascico vero del consumo, qualcosa in più dell'orma lasciata da ogni prodotto sulla crosta terrestre. Il sud è il capolinea di tutti gli scarti tossici, i rimasugli inutili, la feccia della produzione. Se i rifiuti sfuggiti al controllo ufficiale — secondo una stima di Legambiente — fossero accorpati in un'unica soluzione, nel loro complesso diverrebbero una catena montuosa da quattordici milioni di tonnellate: praticamente come una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari. Il Monte Bianco è alto 4.810 metri, l'Everest 8.844. Questa montagna di rifiuti, sfuggiti ai registri ufficiali, sarebbe la più grande montagna esistente sulla terra. È così che ho immaginato il DNA dell'economia, le sue operazioni commerciali, le sottrazioni e le somme dei commercialisti, i dividendi dei profitti: come questa enorme montagna. Una catena montuosa enorme che — come fosse stata fatta esplodere — si è dispersa per la parte maggiore nel sud Italia, nelle prime quattro regioni con il più alto numero di reati ambientali: Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. Lo stesso elenco di quando si parla dei territori con i maggiori sodalizi criminali, con il maggior tasso di disoccupazione e con la partecipazione più alta ai concorsi per volontari nell'esercito e nelle forze di polizia. Un elenco sempre uguale, perenne, immutabile. Il casertano, la terra dei Mazzoni, tra il Garigliano e il Lago Patria, per trent'anni ha assorbito tonnellate di rifiuti, tossici e ordinari.
La zona più colpita dal cancro del traffico di veleni si trova tra i comuni di Grazzanise, Cancello Arnone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno, Casal di Principe — quasi trecento chilometri quadrati di estensione — e nel perimetro napoletano di Giugliano, Qualiano, Villaricca, Nola, Acerra e Mariglia-no. Nessun'altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29.8 per cento, paragonabile solo all'espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni '90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti. Già nella relazione al Parlamento, fatta nel 2002 dal Ministro dell'Interno, si parlava chiaramente di un passaggio dalla raccolta dei rifiuti a un patto imprenditoriale con alcuni addetti ai lavori, finalizzato all'esercizio di un controllo totale sull'intero ciclo. Il clan dei Casalesi, nella sua doppia diramazione, una diretta da Schiavone Sandokan e l'altra da Francesco Bidognetti, alias Cicciotto di Mezzanotte, si spartisce il grande business, un così enorme mercato che — pur con continue tensioni — non li ha mai portati a uno scontro frontale. Ma i Casalesi non sono da soli. C'è il clan Maliardo di Giugliano, un cartello abilissimo nel dislocare in maniera rapida i proventi dei propri traffici, e capace di veicolare sul proprio territorio una quantità immensa di rifiuti. Nel giuglianese è stata scoperta una cava dismessa completamente ricolma di rifiuti. La stima della quantità sversata corrisponde a circa ventottomila Tir. Una massa rappresentabile immaginando una fila di camion, uno appoggiato al paraurti dell'altro, che va da Caserta a Milano.