Boccolato era stato condannato a morte perché in una lettera inviata dal carcere a un suo amico aveva pesantemente offeso Augusto. Il boss l'aveva trovata per caso, mentre gironzolava per il soggiorno di un suo affiliato, scartabellando tra fogli e foglietti aveva riconosciuto il suo nome, e incuriosito si era messo a leggere la caterva di insulti e critiche che Boccolato gli dedicava. Già prima di concludere la lettera l'aveva condannato a morte. A ucciderlo mandò Angelo Gagliardi, un ex cutoliano come lui, uno di quelli sulla cui auto sarebbe salito senza sospettare nulla. Gli amici sono i migliori killer, quelli che più di rutti riescono a fare un lavoro pulito, senza rincorrere il proprio obiettivo mentre urla scappando. In silenzio, quando meno se l'aspetta, gli si punta la canna della pistola alla nuca e si fa fuoco. Il boss voleva che le esecuzioni avvenissero in un'intimità amicale. Augusto La Torre non sopportava che la sua persona fosse ridicolizzata, non voleva che qualcuno pronunciando il suo nome potesse associarci subito dopo una risata. Nessuno doveva osare.
Luigi Pellegrino, conosciuto da tutti come Gigiotto, era invece uno di quelli a cui piaceva spettegolare su tutto ciò che riguardava i potenti della sua città. Sono molti i ragazzi che in terra di camorra bisbigliano dei gusti sessuali dei boss, delle orge dei capizona, delle figlie zoccole degli imprenditori dei clan. Ma in genere i boss tollerano, hanno davvero altro a cui pensare e poi è inevitabile che sulla vita di chi comanda si inneschi una sorta di vero e proprio gossip. Gigiotto spettegolava sulla moglie del boss, raccontava in giro di averla vista incontrarsi con uno degli uomini più fidati di Augusto. L'aveva vista accompagnata agli incontri con il suo amante dall'autista stesso del boss. Il numero uno dei La Torre, che tutto gestiva e controllava, aveva la moglie che gli faceva le corna sotto il naso e non se ne accorgeva. Gigiotto raccontava i suoi pettegolezzi con varianti sempre più dettagliate e sempre diverse. Che fosse invenzione o meno, in paese la storiella della moglie del boss che se la intendeva col braccio destro di suo marito ormai la raccontavano tutti e tutti erano bene attenti a citarne la fonte: Gigiotto. Un giorno Gigiotto stava camminando per il centro di Mondragone quando sentì il rumore di una motocicletta avvicinarsi un po' troppo al marciapiede. Appena intuì la decelerazione del motore, iniziò a scappare. Dalla moto partirono dei colpi ma Gigiotto, zigzagando tra pali della luce e persone, riuscì a far scaricare l'intero caricatore al killer che stava ancorato dietro la schiena del motociclista. Il motociclista così dovette rincorrere a piedi Gigiotto che si era rifugiato in un bar tentando di nascondersi dietro al bancone. Tirò fuori la pistola e sparò alla testa davanti a decine di persone che un attimo dopo l'omicidio si dileguarono silenziose e veloci. Secondo le indagini, a volerlo eliminare fu il reggente del clan, Giuseppe Fragnoli, che senza neanche chiedere l'autorizzazione decise di togliere di mezzo la malalingua che tanto stava infangando l'immagine del boss.
Nella mente di Augusto, Mondragone, le sue campagne, la costa, il mare, dovevano essere soltanto un'officina d'impresa, un laboratorio a disposizione di lui e dei suoi imprenditori consorziati, un territorio da cui estrarre materia da frullare nel profitto delle sue aziende. Aveva imposto il divieto assoluto di spacciare droga a Mondragone e sulla costa domizia. L'ordine sommo che i boss casertani davano ai loro sottoposti e a chiunque. Il divieto nasceva da un motivo moralistico, quello di preservare i propri concittadini da eroina e cocaina, ma soprattutto per evitare che sul loro territorio la manovalanza del clan gestendo droga potesse arricchirsi in seno al potere e trovare linfa economica immediata, per contrapporsi ai leader della famiglia. La droga che il cartello mondragonese mediava dall'Olanda alle piazze laziali e romane era tassativamente vietata. I mondrago-nesi dovevano mettersi in macchina e arrivare sino a Roma per comprare fumo, coca ed eroina che giungeva nella capitale dai napoletani, dai Casalesi e dai mondragonesi stessi. Gatti che rincorrevano la propria coda attaccata a un sedere spostato lontano. Il clan creò un gruppo con tanto di rivendicazioni formali ai centralini della polizia, una sigla: il GAD, il gruppo antidroga. Se ti beccavano con uno spinello in bocca ti spaccavano il setto nasale, se qualche moglie scopriva una bustina di coca, bastava facesse arrivare voce a qualcuno del GAD che gli avrebbe fatto passare la voglia di tirare a suon di calci e pugni in faccia e vietando ai benzinai di fare benzina per arrivare a Roma.
Un ragazzo egiziano, Hassa Fakhry, pagò duramente il suo essere eroinomane. Era un guardiano di porci. Quelli neri casertani, una razza rara. Porci scurissimi, più delle bufale, bassi e pelosi, fisarmoniche di grasso da cui si ricavano salsicce magre, salami gustosi e braciole saporose. Un mestiere infame, quello del porcaio. Sempre a spalare sterco e poi a sgozzare a testa in giù porcelli e raccogliere il sangue nelle bacinelle. In Egitto faceva l'autista, ma proveniva da una famiglia di contadini e quindi sapeva come trattare gli animali. Ma non i porci. Era musulmano e i porci gli facevano doppiamente schifo. Meglio però badare ai maiali che dover spalare tutto il giorno la merda delle bufale, come fanno gli indiani. I maiali cacano la metà della metà e i porcili sono di quadratura infinitesimale rispetto alle stalle bovine. Tutti gli arabi lo sanno e per questo accettano di curare i porci, pur di non svenire dalla stanchezza lavorando con i bufali. Hassa iniziò a farsi di eroina, ogni volta andava in treno a Roma, prendeva le dosi e tornava al porcile. Divenendo un vero tossicomane, i soldi non gli bastavano mai e così il suo pu-sher gli consigliò di provare a spacciare a Mondragone, una città senza nessuna piazza di droga. Accettò e così aveva iniziato a vendere fuori al bar Domizia. Aveva trovato una clientela capace di farlo guadagnare in dieci ore di lavoro lo stipendio di sei mesi da porcaio. Bastò una telefonata del titolare del bar, fatta come si fa sempre da queste parti, per far cessare l'attività. Si chiama un amico, che chiama il cugino, che riferisce al suo compare che riporta la notizia a chi deve riferire. Un passaggio di cui si conoscono soltanto il punto iniziale e finale. Dopo pochi giorni gli uomini dei La Torre, autoproclamatisi GAD, andarono direttamente a casa sua. Per non farlo scappare tra porci e bufale, e costringerli quindi a inseguirlo nel fango e nella merda, citofonarono alla sua casupola fingendosi poliziotti. Lo caricarono in auto e iniziarono ad allontanarsi. Ma l'auto non prese la strada del commissariato. Appena Hassa Fakhry comprese che lo stavano per ammazzare ebbe una strana reazione allergica. Come se la paura avesse innescato uno shock anafilattico, il corpo iniziò a gonfiarsi; pareva che qualcuno gli stesse pompando violentemente aria. Lo stesso Augusto La Torre quando raccontò la cosa ai giudici era esterrefatto di quella metamorfosi: gli occhi dell'egiziano si fecero minuscoli come se il cranio li stesse risucchiando, i pori buttavano fuori un sudore denso, di miele, e dalla bocca gli usciva una bava di ricotta. Lo uccisero in otto. Ma a sparare furono soltanto sette. Un pentito, Mario Sperlongano, dichiarò: "Mi sembrava una cosa del tutto inutile e sciocca sparare a un corpo senza vita". Ma era sempre andata così, Augusto era come inebriato dal suo nome, dal simbolo del suo nome. Dietro di lui, dietro ogni sua azione dovevano stare tutti i suoi legionari, i legionari di camorra. Omicidi che potevano essere risolti con pochissimi esecutori, uno, al massimo due, venivano invece portati a termine da tutti i suoi fedelissimi. Spesso veniva chiesto a ogni presente di sparare almeno un colpo, anche se il corpo era già cadavere. Uno per tutti e tutti per uno. Per Augusto tutti i suoi uomini dovevano partecipare, anche quando era superfluo. La continua paura che qualcuno si potesse tirare indietro, lo portava ad agire sempre in gruppo. Poteva accadere che gli affari ad Amsterdam, Abeerden, Londra, Caracas potessero far andar fuori di testa qualche affiliato e convincerlo di potere far da sé. Qui la ferocia è il vero valore del commercio: rinunciare a essa significa perdere ogni cosa. Dopo averlo massacrato, il corpo di Hassa Fakhry fu trafitto per centinaia di volte da siringhe da insulina, le stesse usate dagli eroinomani. Un messaggio sulla pelle che tutti da Mon-dragone a Formia dovevano capire immediatamente. E il boss non guardava in faccia a nessuno. Quando un affiliato, Paolo Montano, detto Zumpariello, uno degli uomini più fidati delle sue batterie di fuoco, iniziò a drogarsi non riuscendo più a staccarsi dalla coca, lo fece convocare da un suo amico fidato a un incontro in una masseria. Giunti sul posto, Ernesto Cornacchia avrebbe dovuto scaricargli contro l'intero caricatore, ma non volle sparare per paura di colpire il boss che si trovava troppo vicino alla vittima. Vedendolo esitare Augusto estrasse la pistola e uccise Montano, i colpi però trapassarono di rimbalzo anche il fianco di Cornacchia, che preferì prendere una pallottola in corpo piuttosto che rischiare di ferire il boss. Anche Zumpariello fu gettato in un pozzo e fatto saltare, alla mondragonese. I legionari avrebbero fatto di tutto per Augusto: anche quando il boss si è pentito l'hanno seguito. Nel gennaio 2003 il boss, dopo l'arresto della moglie, decise di fare il grande passo e si pentì. Accusò se stesso e i suoi fedelissimi di una quarantina di omicidi, fece trovare nelle campagne mondragonesi i resti delle persone che aveva dilaniato nel fondo dei pozzi, denunciò se stesso per decine e decine di estorsioni. Una confessione tarata piuttosto sugli aspetti militari che su quelli economici. Dopo poco tempo i fedelissimi Mario Sperlongano, Giuseppe Valente, Girolamo Rozzera, Pietro Scuttini, Salvatore Orabona, Ernesto Cornacchia, Angelo Gagliardi lo seguirono. I boss, una volta finiti in carcere, hanno nel silenzio l'arma più sicura per conservare autorevolezza, continuare a possedere formalmente il potere anche se il regime di carcere duro li allontana dalla gestione diretta. Ma il caso di Augusto La Torre è particolare: parlando ed essendo seguito da tutti i suoi, non doveva temere con la sua defezione che qualcuno massacrasse la sua famiglia, né effettivamente la sua collaborazione con la giustizia sembra essere stata determinante per intaccare l'impero economico del cartello mondragonese. È stato fondamentale solo per comprendere le logiche delle mattanze e la storia del potere sulla costa casertana e laziale. Augusto La Torre ha parlato del passato, come molti boss di camorra. Senza pentiti la storia del potere non potrebbe essere scritta. La verità dei fatti, i dettagli, i meccanismi, senza pentiti si scoprono dieci, vent'anni dopo, un po' come se un uomo capisse solo dopo la morte come funzionavano i propri organi vitali.
Il rischio del pentimento di Augusto La Torre e del suo stato maggiore è che possano esserci forti sconti di pena per il racconto di ciò che è stato, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri, soprattutto alle famiglie albanesi. Come se al fine di evitare ergastoli e faide interne per l'avvicendamento dei poteri, avessero deciso di usare la loro conoscenza dei fatti, riportati con precisione e veridicità, come mediazione per continuare a vivere soltanto del potere legale delle proprie attività. Augusto la cella non l'aveva mai sopportata, non riusciva a resistere a decenni di galera come i grandi boss vicino a cui era cresciuto. Aveva preteso che la mensa del carcere rispettasse la sua dieta vegetariana e siccome amava il cinema, ma non era possibile avere un videoregistratore in cella, più volte chiese a un editore di un'emittente locale dell'Umbria, dove si trovava detenuto, di mandare in onda quando ne aveva voglia, le tre parti de II Padrino, di sera, prima di addormentarsi.
Il pentimento di La Torre ha sempre grondato ambiguità secondo i magistrati, non è riuscito a rinunciare al suo ruolo di boss. E che le rivelazioni da pentito siano state un'estensione del suo potere, lo mostra una lettera che Augusto fece recapitare a suo zio dove lo rassicurava di averlo "salvato" da ogni coinvolgimento nelle vicende del clan, ma da abile narratore non risparmia una chiara minaccia a lui e altri due suoi parenti, scongiurando l'ipotesi che possa nascere a Mon-dragone un'alleanza contro il boss:
"Tuo genero e suo padre si sentono protetti da persone che portano a spasso il loro cadavere."
Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila chiedeva anche danaro, aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste che consegnava sempre al suo autista Pietro Scuttini, e alla madre. Quelle richieste, secondo la magistratura, erano estorsioni. Un biglietto dai toni cortesi, indirizzato al titolare di uno dei più grandi caseifici della costa domizia, è la prova che Augusto continuava a ritenerlo a sua disposizione.
"Caro Peppe ti chiedo un grosso favore perché sto rovinato, se vuoi aiutarmi, ma te lo chiedo soltanto in nome della nostra vecchia amicizia e non per altri motivi e anche se mi dirai di no, stai tranquillo ti salverò sempre! Mi servono urgentemente diecimila euro e poi devi dirmi se puoi darmi mille euro al mese, mi servono per vivere con i miei figli…"
Il tenore di vita a cui era abituata la famiglia La Torre andava ben oltre l'assistenza economica che lo Stato garantisce ai collaboratori di giustizia. Riuscii a comprendere il giro d'affari della famiglia solo dopo aver letto le carte del megasequestro eseguito su disposizione della magistratura di Santa Maria Capua Vetere nel 1992. Sequestrarono beni immobili per il valore attuale di circa duecentotrenta milioni di euro, diciannove imprese per un valore di trecentoventitré milioni di euro, ai quali si aggiunsero altri centotrentatré milioni di euro relativi agli impianti di lavorazione e ai macchinari. Si trattava di numerosi opifici, ubicati tra Napoli e Gaeta, lungo la zona domizia, tra i quali un caseificio, uno zuccherificio, quattro supermercati, nove ville sul mare, fabbricati con annessi terreni, oltre a vetture di grossa cilindrata e motociclette. Ogni azienda aveva circa sessanta dipendenti. I giudici disposero inoltre il sequestro della società che aveva in appalto la raccolta dei rifiuti nel comune di Mon-dragone. Fu un'operazione gigantesca che annullava un potere economico esponenziale, eppure microscopico rispetto al reale giro d'affari del clan. Sequestrarono anche una villa immensa, una villa la cui fama era arrivata anche ad Aberdeen. Quattro livelli a picco sul mare, piscina arredata con un labirinto subacqueo, costruita in zona Ariana di Gaeta, progettata come la villa di Tiberio, non il capostipite del clan di Mondragone, ma l'imperatore che si era ritirato a governare a Capri. Non sono mai riuscito a entrare in questa villa e la leggenda e le carte giudiziarie sono state le lenti attraverso cui ho saputo dell'esistenza di questo mausoleo imperiale, posto a guardia delle proprietà italiane del clan. La zona costiera avrebbe potuto essere una sorta di infinito spazio sul mare, capace di concedere ogni sorta di fantasia all'architettura. Invece col tempo la costa casertana è divenuta un'accozzaglia di case e villette costruite velocemente per invogliare un turismo enorme dal basso Lazio a Napoli. Nessun piano regolatore sulla costa domizia, nessuna licenza. Allora le villette da Castelvolturno a Mondragone sono divenute i nuovi alloggi dove stivare decine di africani e i parchi progettati, le terre che dovevano ospitare nuovi agglomerati di villette e palazzotti per vacanze e turismo sono diventate discariche incontrollate. Nessun depuratore posseduto dai paesi costieri. Un mare marroncino bagna ormai spiagge mischiate a monnezza. In una manciata di anni, ogni lontanissima penombra di bellezza è stata eliminata. D'estate alcuni locali domiziani divenivano veri e propri bordelli, alcuni miei amici si preparavano alla caccia serale mostrando il portafogli vuoto. Non di danaro, ma del francobollo di lamina con anima circolare, ossia del preservativo. Mostravano che andare a Mondragone a scopare senza preservativo era cosa tranquilla: "Stasera si fa senza!".