titolare di un marchio divenuto notissimo, attraverso l'abilità d'impresa e la protezione militare ed economica del clan.

Un marchio che ha una rete in franchising composta da cinquantasei punti vendita in Italia e a Tokyo, Bucarest, Lisbona e Tunisi.

Il clan Giuliano, egemone negli anni '80 e '90, nasce nel ventre molle di Napoli, a Forcella, il quartiere che attira su di sé ogni mitologia da casba, ogni leggenda di ombelico marcio del centro storico. I Giuliano sembrano un clan giunto al capolinea, lentamente emerso dalla miseria, dal contrabbando alle puttane, dalla gestione dell'estorsione porta a porta ai rapimenti. Una dinastia enorme basata su cugini, nipoti, zii, parenti. L'acme del potere lo raggiunsero alla fine degli anni '80 e ora sono portatori di una sorta di carisma che non può scomparire. Ancora oggi chi vuol comandare nel centro storico deve vedersela con i Giuliano. Un clan con il fiato sul collo della miseria e del terrore di ritornare miserabili. Una delle affermazioni di Luigi Giuliano, il re di Forcella, che più mostrava il suo disgusto per la miseria l'aveva raccolta il cronista Enzo Perez: "Io non sono d'accordo con Tommasi-no, a me il presepe mi piace, sono i pastori che mi fanno schifo!".

Il volto del potere assoluto del sistema camorristico assume sempre più i tratti femminili, ma anche gli esseri stritolati, schiacciati dai cingolati del potere sono donne. Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi una spugna d'acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la prima serata realmente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo d'una amica. Indossava un vestitino bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, e quattordici anni per una ragazza di Forcella è l'età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l'incolumità delle caviglie. Devono essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto, pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemica d'ogni scarpa fernminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l'amica e una cugina stava ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche palermitani e baresi. Gigi D'Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l'ha fatta a uscire dal microcircuito imponendosi in tutt'Italia, gli altri, centinaia di altri, sono rimasti invece piccoli idoli di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo. Ognuno ha il suo cantante. D'improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e l'amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l'hanno raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre aperti per auscultare i vicoli. Le urla, l'ambulanza, la corsa in ospedale, l'intero quartiere riempie le strade di curiosità e ansia.

Salvatore Giuliano è un nome importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha tradito il suo clan per evitare l'ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature, anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell'infamia, continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l'erede, deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il giorno stabilito per ufficializzare l'egemonia, per far fuori il rampollo che stava alzando la testa e mostrare a Forcella l'inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano, lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all'improvviso di essere nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo. Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze, approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare. Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le gambe che corrono all'interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha aperto la testa.

In chiesa riesco ad avvicinarmi ai piedi dell'altare. Lì c'è la bara di Annalisa. Ai quattro lati ci sono vigili in alta uniforme, l'omaggio della regione Campania alla famiglia della ragazzina. La bara è colma di fiori bianchi. Un cellulare, il suo cellulare viene poggiato vicino la base del feretro. Il padre di Annalisa si lamenta. Si agita, balbetta qualcosa, saltella, muove i pugni nelle tasche. Mi si avvicina, ma non è a me che si rivolge, dice: "E adesso? E adesso?". Appena il padre scoppia a piangere tutte le donne della famiglia iniziano a urlare, a battersi, a dondolarsi con strilli acutissimi, appena il capofamiglia smette di piangere, tutte le donne riprendono il silenzio. Dietro scorgo le panche con le ragazzine, amiche, cugine, semplici vicine di Annalisa. Imitano le loro madri, nei gesti, nello scuotere la testa, nelle cantilene che ripetono: "Non esiste! Non è possibile!". Si sentono investite di un ruolo importante: confortare. Eppure trapela da loro orgoglio. Un funerale per una vittima di camorra è per loro un'iniziazione, al pari del menarca o del primo rapporto sessuale. Come le loro madri, con questo evento prendono parte attiva alla vita del quartiere. Hanno le telecamere rivolte verso di loro, i fotografi, tutti sembrano esistere per loro. Molte di queste ragazzine si sposeranno tra non molto con camorristi, di alto o di infimo grado. Spacciatori o imprenditori. Killer o commercialisti. Molte di loro avranno figli ammazzati e faranno la fila al carcere di Poggioreale per portare notizie e soldi ai mariti in galera. Ora però sono soltanto bambine in nero, senza dimenticare i pantaloni a vita bassa e i perizoma. È un funerale, ma sono vestite in modo accurato. Perfetto. Piangono un'amica, sapendo che questa morte le renderà donne. E, nonostante il dolore, non ne vedevano l'ora. Penso al ritorno eterno delle leggi di questa terra. Penso che i Giuliano hanno raggiunto il massimo potere quando Annalisa non era ancora nata e sua madre era una ragazzina che frequentava ragazzine, che poi sono divenute mogli dei Giuliano e dei loro affiliati, hanno da adulte ascoltato la musica di D'Alessio, hanno osannato Maradona che con i Giuliano ha sempre condiviso cocaina e festini, memorabile la foto di Diego Armando Maradona nella vasca a forma di conchiglia di Lovi-gino. Vent'anni dopo, Annalisa muore mentre stavano rincorrendo e sparando a un Giuliano, mentre un Giuliano rispondeva al fuoco usandola come scudo, o forse semplicemente passandole accanto. Un percorso storico identico, eternamente uguale. Imperituro, tragico, perenne.

La chiesa ormai è stracolma. La polizia e i carabinieri però continuano a essere nervosi. Non capisco. Si agitano, perdono la pazienza per un nonnulla, camminano nervosi. Capisco dopo qualche passo. Mi allontano dalla chiesa e vedo che un'auto dei carabinieri divide la folla di persone accorse al funerale da un gruppo di individui tirati a lustro, su moto lussuose, in macchine decappottabili, su scooter potenti. Sono i membri del clan Giuliano, gli ultimi fedelissimi di Salvatore. I carabinieri temono che possano esserci insulti tra questi camorristi e la folla, e che possa generarsi un putiferio. Per fortuna non accade nulla, ma la loro presenza è profondamente simbolica. Attestano che nessuno può dominare nel centro storico di Napoli senza il loro volere, o quantomeno senza la loro mediazione. Mostrano a tutti che loro ci sono e sono ancora i capi, nonostante tutto.

La bara bianca esce dalla chiesa, una folla preme per toccarla, molti svengono, le urla belluine iniziano a incrinare i timpani. Quando il feretro passa sotto la casa di Annalisa, la madre che non ce l'ha fatta ad assistere alla funzione in chiesa tenta di gettarsi dal balcone. Urla, si dimena, il volto è gonfio e rosso. Un gruppo di donne la trattiene. La solita scena tragica avviene. Sia ben chiaro, il pianto rituale, le scenate di dolore non sono menzogne e finzioni. Tutt'altro. Mostrano però la condanna culturale in cui vivono tutt'ora gran parte delle donne napoletane, costrette ancora ad appellarsi a forti comportamenti simbolici per attestare il loro dolore e renderlo riconoscibile all'intera comunità. Benché tremendamente vero, questo frenetico dolore apparentemente mantiene le caratteristiche di una sceneggiata.

I giornalisti si avvicinano appena. Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino sono terrorizzati, temono che il quartiere possa rivoltarsi contro di loro. Non accade, la gente di Forcella ha imparato a trarre vantaggio dalla politica e non si vuole inimicare nessuno. Qualcuno applaude alle forze dell'ordine. Qualche giornalista si eccita per questo gesto. Carabinieri osannati nel quartiere della camorra. Che ingenuità. Quell'applauso è stata una provocazione. Meglio i carabinieri che i Giuliano. Ecco cosa hanno voluto dire. Alcune telecamere tentano di raccogliere testimonianze, si avvicinano a una vecchietta dall'aspetto fragile. Arraffa subito il microfono e urla: "Per colpa di quelli… mio figlio si farà cinquant'an-ni anni di carcere! Assassini!". L'odio contro i pentiti è celebrato. La folla preme, la tensione è altissima. Pensare che una ragazzina è morta perché aveva deciso di ascoltare musica assieme alle amiche, sotto un portone in una serata di primavera, fa girare le viscere. Ho la nausea. Devo restare calmo. Devo capire, se possibile. Annalisa è nata e vissuta in questo mondo. Le sue amiche le raccontavano delle fughe in moto con i ragazzi del clan, lei stessa si sarebbe forse innamorata di un bel ragazzetto ricco, capace di far carriera nel Sistema o forse di un bravo guaglione che si spaccava la schiena tutto il giorno per quattro soldi. Il suo destino sarebbe stato quello di lavorare in una fabbrica in nero, di borse, dieci ore al giorno per cinquecento euro al mese. Annalisa era impressionata dal marchio sulla pelle che hanno le operaie che lavorano il cuoio, nel suo diario era scritto: "le ragazze che lavorano con le borse hanno sempre le mani nere, stanno per tutto il giorno chiuse in fabbrica. C'è anche mia sorella Manu ma almeno a lei il datore di lavoro non la costringe a lavorare anche quando non si sente bene". Annalisa è divenuta simbolo tragico perché la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile e consustanziale: l'assassinio. Qui però non esiste attimo in cui il mestiere di vivere non appaia una condanna all'ergastolo, una pena da scontare attraverso un'esistenza brada, identica, veloce, feroce. Annalisa è colpevole d'essere nata a Napoli. Nulla di più, nulla di meno. Mentre il corpo di Annalisa nella bara bianca viene portato via a spalla, la compagna di banco lascia trillare il suo cellulare. Squilla sul feretro: è il nuovo requiem. Un trillo continuo, poi musicale, accenna una melodia dolce. Nessuno risponde.


Seconda parte

Kalashnikov

Ci avevo passato le dita sopra. Avevo anche chiuso gli occhi. Facevo scivolare il polpastrello dell'indice sull'intera superficie. Dall'alto in basso. Poi quando passavo sul buco, mezza unghia si arenava. Lo facevo su tutte le vetrine. A volte nei fori entrava l'intero polpastrello, a volte mezzo. Poi aumentai la velocità, percorrevo la superficie liscia in modo disordinato come se il mio dito fosse una sorta di verme impazzito che entrava e usciva dai buchi, superava gli avvallamenti, scorazzando sul vetro. Sin quando il polpastrello mi si tagliò di netto. Continuai a strisciarlo lungo la vetrina lasciando un alone acquoso rosso porpora. Aprii gli occhi. Un dolore sottile, immediato. Il buco si era riempito di sangue. Smisi di fare l'idiota e iniziai a succhiare la ferita.

I fori dei kalashnikov sono perfetti. Si stampano violenti sui vetri blindati, scavano, intaccano, sembrano dei tarli che mordicchiano e poi lasciano la galleria. I colpi di mitra visti da lontano danno un'impressione strana, come decine di bollicine formatesi nel cuore del vetro, tra le diverse patine blindate. Quasi nessun commerciante dopo una sventagliata di kalashnikov sostituisce le vetrine. Qualcuno spreme dentro i fori la pasta di silicone, qualcun altro li copre con nastri adesivi neri, la maggior parte lascia tutto così com'è. Una vetrina blindata di un negozio può costare anche cinquemila euro, meglio tenersi quindi queste decorazioni violente. E poi in fondo, magari divengono anche attrattiva per gli acquirenti che si fermano con curiosità, chiedendosi che cosa è successo, intrattenendosi con il proprietario dell'esercizio, insomma magari comprano anche qualcosa in più del dovuto. Piuttosto che sostituire i vetri blindati si aspetta magari che li facciano implodere con la prossima raffica. A quel punto l'assicurazione paga, perché se si arriva la mattina presto e si fanno scomparire i vestiti, la raffica di mitra viene rubricata come rapina.

Sparare sulle vetrine non è sempre un gesto di intimidazione, un messaggio da veicolare con le pallottole, quanto piuttosto una necessità militare. Quando arrivano nuove partite di kalashnikov bisogna testarli. Vedere se funzionano, notare se la canna è ben messa, prenderci confidenza, verificare che i caricatori non si inceppino. Potrebbero provare i mitra in campagna, sui vetri di vecchie auto blindate, comprare lastre da sfasciare in tranquillità. Non lo fanno. Sparano invece sulle vetrine, sulle porte blindate, sulle saracinesche, un modo per ricordare che non c'è cosa che non possa esser loro e che tutto, in fondo, è una concessione momentanea, una delega di un'economia che solo loro gestiscono. Una concessione, null'altro che una concessione che in ogni momento potrebbe esser revocata. E poi c'è anche un vantaggio indiretto poiché in zona le vetrerie che hanno i migliori prezzi sui vetri blindati sono tutte legate ai clan, quindi più vetrine rovinate, più danaro per le vetrerie.