Le donne del clan garantivano maggiore capacità imprenditoriale, minore ossessione riguardo l'ostentazione del potere e minore volontà di conflitto. Donne le dirigenti, donne le loro guardaspalle, donne le imprenditrici del clan. Una sua "dama di compagnia", Immacolata Capone, nel corso degli anni fece fortuna all'interno del clan. Immacolata fu la madrina di Teresa, la figlia della vedova. Non aveva un aspetto da matrona con capelli fonati e guance piene come Anna Mazza, Immacolata era minuta, un caschetto biondo sempre ordinato, un'eleganza sobria. Non aveva nessun tratto dell'ombrosa camorrista. E piuttosto che alla ricerca di uomini che le conferissero maggiore autorevolezza, erano gli uomini che si legavano a lei per avere protezione. Sposò Giorgio Sa-lierno, camorrista implicato nei tentativi di ostacolare il pentito Galasso, e poi si legò a un uomo del clan Puca di Sant'Antimo, una famiglia dal passato potente vicina a Cuto-lo, un clan reso celebre dal fratello del compagno di Immacolata, Antonio Puca. Nella sua tasca fu trovata un'agendina con il nome di Enzo Tortora, il presentatore televisivo accusato ingiustamente di essere un camorrista. Quando Immacolata raggiunse la maturità economica e dirigenziale, il clan era in crisi. Carcere e pentiti avevano messo a repentaglio il certosino lavoro di donna Anna. Ma Immacolata puntò tutto sul cemento, gestiva anche una fabbrica di laterizi al centro di Afragola. L'imprenditrice aveva fatto di tutto per legarsi al potere del clan dei Casalesi, che più di ogni altro gestisce sul piano nazionale e internazionale gli affari nel campo dell'edilizia e delle costruzioni. Secondo le indagini della DDA di Napoli, Immacolata Capone fu l'imprenditrice capace di riportare le ditte dei Moccia a conquistare nuovamente la leadership nel campo dell'edilizia. A sua disposizione vi era la ditta MOTRER, una delle imprese più importanti nel campo del movimento terra del mezzogiorno italiano. Aveva messo su un impeccabile meccanismo — secondo le indagini — con il consenso di un politico locale. Il politico concedeva gli appalti, l'imprenditore li vinceva e donna Immacolata li prendeva in subappalto. Credo di averla vista soltanto una volta. Proprio ad Afragola mentre stava entrando in un supermarket. Le sue guardaspalle erano due ragazze. La scortavano seguendola con una Smart, la piccola auto biposto che ogni donna di camorra possiede. Dallo spessore delle porte però quella Smart sembrava blindata. Nell'immaginario le guardie del corpo donna possono apparire come quelle cul-turiste dove ogni muscolo gonfiato le rende maschili. Cosce a grappoli, pettorali che hanno ingollato i seni, bicipiti ipertrofici, collo a tronco. Le guardaspalle che mi trovai davanti invece non avevano niente della virago. Una bassina con sedere grosso e molle e una tintura nera eccessiva, l'altra magra, esile, spigolosa. Mi colpì l'abbigliamento curatissimo, entrambe avevano qualcosa che ricordava i colori della Smart, giallo fluorescente. Una aveva una maglietta dello stesso colore dell'auto, mentre la donna al volante aveva la montatura degli occhiali da sole gialla. Un giallo che non poteva essere stato scelto per caso, né tantomeno indossato per una coincidenza. Era uno dei tocchi di professionalità. La stessa tonalità di giallo della tuta da motociclista che Urna Thurman indossa in Kill Bill di Quentin Tarantino, un film dove per la prima volta donne sono protagoniste criminali di prim'ordine. Quel giallo della tuta che Urna Thurman indossa anche nel manifesto del film, con la spada da samurai sguainata, e che ti rimane negli occhi e forse anche sulle papille gustative. Un giallo così falso da diventare simbolo. L'impresa vincente deve dare un'immagine vincente. Nulla viene lasciato al caso, neanche il colore dell'auto e la divisa delle guardie del corpo. La Capone aveva dato l'esempio dal momento che moltissime donne inserite a diverso titolo e livello nei clan pretendono la scorta femminile, e ne curano l'armonia di stile e immagine.

Qualcosa però non stava andando per il verso giusto. Forse aveva invaso territori non suoi, forse conservava segreti ricattatori: Immacolata Capone venne uccisa nel marzo 2004 a Sant'Antimo, il paese del suo compagno. Era senza scorta. Non credeva forse di correre un pericolo. L'esecuzione avvenne al centro del paese, i killer si mossero a piedi. Immacolata Capone appena intuì di essere seguita iniziò a scappare, la gente intorno credeva fosse stata scippata e stesse inseguendo i ladri, ma la borsa l'aveva a tracolla. Correva tenendosi la borsa stretta al petto in un istinto che non permette di lasciare, di far cascare per terra ciò che rende più complicata la corsa per salvarsi la vita. Immacolata entrò in una polleria, ma non fece in tempo a rifugiarsi dietro al bancone. La raggiunsero e posarono la canna della pistola dietro la nuca. Due colpi secchi: il ritardo culturale, che evitava di toccare le donne, di cui aveva goduto Anna Mazza, venne così colmato. Il cranio sfondato dai proiettili e la faccia riversa nel sangue denso mostrarono il nuovo corso della politica militare dei clan. Nessuna differenza tra uomo e donna. Nessun presunto codice d'onore. Ma il matriarcato dei Moccia ha agito lentamente mantenendosi sempre pronto ai grandi affari, controllando un territorio con investimenti oculati e mediazioni finanziare di prim'ordine, egemonizzando l'acquisto di terreni, evitando faide e alleanze che avrebbero potuto ingerire nelle imprese di famiglia.

Ora su un territorio egemonizzato dalle loro ditte, si erge il più grande complesso Ikea d'Italia e il più esteso cantiere dell'alta velocità del mezzogiorno italiano partirà proprio da questa zona. Per l'ennesima volta, nell'ottobre 2005, il comune di Afragola è stato sciolto per infiltrazione camorristica. Le accuse sono pesanti, oltre duecentocinquanta assunzioni di persone, legate da stretti vincoli di parentela al clan Moccia, sono state chieste da un gruppo di consiglieri comunali di Afragola al presidente di una struttura commerciale.

Nella decisione di sciogliere il consiglio hanno pesato anche alcune concessioni edilizie date in violazione delle norme. Ci sono megastrutture sui terreni di proprietà dei boss e si parla anche dell'ospedale che dovrebbe essere costruito su terreni acquistati dal clan Moccia, proprio in concomitanza con i dibattiti in consiglio comunale. Terreni acquistati a prezzo basso, bassissimo e dopo esser divenuti suoli su cui edificare l'ospedale, venduti ovviamente a costi astronomici. Un guadagno del 600 per cento sul prezzo iniziale. Un guadagno che solo le donne dei Moccia potevano ottenere.

Donne in trincea per difendere i beni e le proprietà del clan, come fece Anna Vollaro, nipote del boss del clan di Portici, Luigi Vollaro. Aveva ventinove anni quando i poliziotti si presentarono per sequestrare l'ennesimo locale della famiglia, una pizzeria. Prese una tanica di benzina, se la versò addosso e con un accendino si diede fuoco. Per evitare che qualcuno tentasse di spegnere le fiamme iniziò a correre all'impazzata. Finì per sbattere contro il muro e l'intonaco si annerì come quando una presa della corrente va in cortocircuito. La Vollaro si fece ardere viva per protestare contro il sequestro di un bene acquistato con capitali illeciti che lei considerava soltanto il risultato di un percorso imprenditoriale normale, naturale.

Si crede che nella prassi criminale il vettore militare porti, una volta raggiunto il successo, al ruolo di imprenditore. Non è così, o almeno non sempre. Ne è un esempio la faida di Quindici, un paese in provincia di Avellino, che subisce da anni la presenza asfissiante e perenne dei clan Cava e Graziano. Le due famiglie sono da sempre in guerra, le donne costituiscono il vero fulcro economico. Il terremoto dell'80 distrugge la Valle di Lauro, la pioggia di miliardi di lire per la ricostruzione dà origine a una borghesia imprenditrice camorrista, ma a Quindici accade qualcosa di più e di diverso di quanto avviene in tutte le altre zone della Campania: non solo uno scontro tra fazioni, ma una faida familiare che nel corso degli anni fa registrare una quarantina di agguati feroci che seminano lutti tra i due nuclei contendenti. Si innesca una carica di odio insanabile che contagia come un morbo dell'anima tutti i rappresentanti delle due famiglie per diverse generazioni. Il paese assiste impotente all'arena in cui si scannano e massacrano le due fazioni. I Cava negli anni '70 rappresentano una costola dei Graziano. Lo scontro nasce quando piovono a Quindici, negli anni '80, cento miliardi di lire per la ricostruzione post-terremoto, una somma che innesca il conflitto per disaccordi circa le quote di appalti e tangenti da spartire. I capitali che arrivano faranno costruire a entrambe le famiglie, attraverso la gestione delle donne dei due clan, piccoli imperi edili. Un giorno mentre il sindaco del paese, fatto eleggere dai Graziano, è nel suo ufficio, un commando dei Cava bussa alla sua porta. Non spararono subito, e questo diede il tempo al sindaco di aprire la finestra, uscire dal suo ufficio, arrampicarsi sul tetto del municipio e scappare sui tetti delle case, sfuggendo all'agguato. Il clan Graziano ha avuto tra le sue fila cinque sindaci, di cui due morti assassinati e tre rimossi, dal Presidente della Repubblica, per rapporti con la camorra. Ci fu un momento in cui però le cose sembrarono poter mutare. Una giovane farmacista, Olga Santaniello, venne eletta sindaco. Solo una donna tenace poteva rispondere al potere delle donne dei Cava e dei Graziano. Tentò in tutti i modi di sciacquare il lereiume del potere dei clan, ma non ce la fece. Una gravissima alluvione il 5 maggio del 1998 investì tutto il Vallo di Lauro, le case si spugnarono d'acqua e fango, le terre divennero stagni melmosi e le vie dei canali inagibili. Olga Santaniello morì annegata. Quel fango che la soffocò divenne doppiamente prolifico per i clan. L'alluvione portò altri danari, e con i nuovi capitali aumentò il potere delle due famiglie. Ci fu l'elezione di Antonio Siniscalchi, riconfermato quattro anni dopo in maniera plebiscitaria. Dopo la prima vittoria elettorale di Siniscalchi, dalla sede dei seggi si snodò un corteo a piedi, al quale parteciparono sindaco, consiglieri e i loro più aperti sostenitori. Il corteo raggiunse la frazione Brosagro sfilando davanti all'abitazione di Arturo Graziano, detto "guaglione", ma non era a lui che i saluti erano rivolti. Erano destinati soprattutto alle donne dei Graziano che, in fila sul balcone in ordine di età, ricevevano gli omaggi del nuovo sindaco dopo che la morte aveva definitivamente eliminato Olga Santaniel-lo. Successivamente Antonio Siniscalchi venne arrestato in un blitz della DDA di Napoli nel giugno del 2002. Secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, con i primi fondi della ricostruzione aveva dato in appalto i lavori per rifare il viale e la recinzione della villa bunker dei Graziano.

Le ville sparse a Quindici, i nascondigli segreti, le strade asfaltate e la pubblica illuminazione erano opera del comune che con i soldi pubblici aiutava i Graziano e li rendeva immuni da attentati e agguati. Gli esponenti delle due famiglie vivevano barricati dietro cancelli invalicabili e sorvegliati ventiquattro ore su ventiquattro da telecamere a circuito chiuso.

Il boss Biagio Cava venne arrestato all'aeroporto di Nizza mentre stava imbarcandosi per New York. Una volta in carcere tutto il potere andò nelle mani della figlia, della moglie, delle donne del clan. Solo le donne si fecero vedere in paese, non erano soltanto le amministratrici occulte, le menti, ma divennero anche il simbolo ufficiale delle famiglie, le facce e gli occhi del potere. Per strada quando si incontravano le famiglie rivali si scambiavano occhiate feroci, sguardi alti, che si appiccicano sugli zigomi in un gioco assurdo che vede perdenti gli occhi che si abbassano. La tensione in paese era altissima quando le donne dei Cava compresero che era giunto il tempo di imbracciare le armi. Da imprenditrici dovevano divenire killer. Si addestrarono negli androni di casa, musica alta per coprire i rumori delle pistole scaricate contro i sacchi di nocciole provenienti dai loro latifondi. Mentre si svolgevano le elezioni comunali del 2002 iniziarono a girare armate per il paese nella loro Audi 80. Erano Maria Scibelli, Michelina Cava e le ragazzine Clarissa e Felicetta Cava di sedici e diciannove anni. In via Cassese l'auto delle donne dei Cava incrociò l'auto delle Graziano, c'erano Stefania e Chiara Graziano di venti e ventuno anni. Dall'auto delle Cava iniziarono a sparare ma le donne dei Graziano, come se si aspettassero l'agguato, inchiodarono la loro macchina e riuscirono a sterzare. Accelerarono, fecero inversione, scapparono. I colpi avevano rotto finestrini e bucato lamiere, ma non colpito la carne. Le due ragazze tornarono in villa gridando. Decisero di scendere a vendicare l'affronto direttamente la madre delle due ragazze, Anna Scibelli e il boss Luigi Salvatore Graziano, il settantenne patriarca della famiglia. Partirono tutti sulla sua Alfa, dietro di loro un'auto blindata con quattro persone armate di mitra e fucili. Intercettaronono l'Audi delle Cava e la tamponarono ripetutamente. L'auto di appoggio bloccava ogni via d'uscita laterale, poi sorpassò l'auto inseguita e le si inchiodò davanti ostruendo ogni altra via di fuga. Le donne dei Cava dopo il primo scontro a fuoco andato a vuoto, temendo di essere fermate dai carabinieri, si erano liberate delle armi. Così trovandosi dinanzi l'auto sterzarono e aprirono gli sportelli e si catapultarono fuori cercando di scappare a piedi. I Graziano scesero dalle auto e iniziarono a sparare contro le donne. Una pioggia di piombo investì gambe, teste, spalle, seni, guance, occhi. Caddero tutte a terra in pochi secondi, sparpagliando le scarpe e rimanendo con i piedi all'aria. Pare che i Graziano infierissero sui corpi, ma non si accorsero che una era ancora viva. Felicetta Cava infatti si salvò. Nella borsa di una delle Cava trovarono una boccetta di acido, forse oltre a sparare avrebbero voluto persino sfregiare le nemiche gettando acido sul viso.

Le donne sono maggiormente capaci di affrontare il crimine come se fosse soltanto lo spazio di un momento, il giudizio di qualcuno, uno scalino toccato e subito superato. Questo le donne dei clan lo mostrano con maggiore evidenza. Si sentono offese, vilipese quando vengono definite camorriste, criminali. Come se criminale fosse solo un giudizio su un operato, non un gesto oggettivo, un comportamento. Ma solo un'accusa. Sino a oggi del resto, a differenza degli uomini, nessuna donna, boss di camorra, si è pentita. Mai.

Ferocemente a difesa dei beni della famiglia, si è sempre adoperata Erminia Giuliano, detta Celeste per il colore dei suoi occhi, la bella e appariscente sorella di Carmine e Luigi, i boss di Forcella, che — secondo le indagini — è il riferimento assoluto nel clan circa la gestione dei beni immobili e dei capitali investiti nel settore commerciale. Celeste ha l'immagine della napoletana classica, della guappa del centro storico, i capelli tinti biondo platino, gli occhi chiari gelidi sempre affogati in tuorli di ombretto nero. Lei gestiva gli indotti economici e legali del clan. Nel 2004 furono confiscati ai Giuliano i beni nati dall'attività imprenditoriale, ventotto milioni di euro, il vero polmone economico del clan. Avevano un insieme di catene di negozi, a Napoli e provincia, e un'azienda